Le café sans nom di Charles Baudelaire. Lettura di À une passante.

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di Jacqueline Spaccini

Seduto, al riparo dietro ai vetri di un caffè senza nome, lui, osserva il ritmo frenetico della città fuori dal locale. Nulla sembra ridestarlo dall’apatia di un giorno come gli altri, il cui unico «suono» è quello prodotto sul pavé urbano da carrozze, vetture e zoccoli di cavalli, ruote di carrette e strepito di voci, in una antropomorfizzazione della strada che attesta l’attività del mondo circostante.

La rue assourdissante autour de moi hurlait.

Sono anni in cui, su incarico di Napoleone III, Haussmann ha sconvolto la città: Parigi è un enorme cantiere, sventrata nelle sue viscere; non c’è angolo della città, caotica per l’enorme traffico degli imperiali, gli omnibus a cavalli, e poi carri (e di già nel 1860 circolava qualche preistorica vettura quale l’hippomobile), non c’è quartiere che non ne sia colpito. Baudelaire vive con fastidio crescente tale situazione, le vieux Paris, n’est plus, (la forme d’une ville // change plus vite, hélas ! que le cœur d’un mortel),scrive nel suo Cygne dedicato a Victor Hugo. La città cambia ma c’è un luogo che mette tutti d’accordo: il caffè.

Luogo moderno per eccellenza, se Édouard Manet[1] dedica a questo soggetto parecchi suoi quadri, Charles Baudelaire lo descriverà lungamente in uno dei suoi – ancora troppo pochi conosciuti – Petits poèmes en prose: il caffè in questione occupa la posizione all’angolo di un boulevard di quelli nuovissimi che hanno cambiato il volto della città. Siamo nella ville lumière e anche il caffè è scintillante di quelle luci al gaz che rischiarano la notte e anche tutti i detriti e i calcinacci dei grandi lavori haussmaniani ancora incompleti. In quel poemetto in prosa, il poeta guarda davanti a sé (lui è seduto con una donna à la terrasse) e vede un pover’uomo di una quarantina d’anni, con la barba lunga e due bambini con sé, uno in braccio e uno per mano, tutti e tre cenciosi, con gli occhi spalancati ad ammirare lo splendore del luogo in una sera luminosa di diseguaglianze[2]. Qui, però Baudelaire non ha intenzioni sociali né politiche. La morale non è in nessun modo invitata a partecipare alla magia dei suoi testi poetici.

Ha un’anima intellettuale, ma può essere popolare; luogo intimo e pubblico insieme: al caffè, ci si siede per esser visti, ma si può restare appartati bevendo la Fée Verte, un dolce nome dietro cui si cela l’assenzio[3], di color verde ma di certo non un liquore inoffensivo. Seduti al tavolo, si fuma, si beve, si legge, si discute. Ma si può anche restare da soli, in silenzio, fissando il vuoto con uno sguardo inebetito, oppure osservando – inosservati – la vita che scorre dinanzi a sé. Così è per il poeta.

A un tratto, la sua attenzione viene richiamata da una figura muliebre, slanciata e in lutto stretto che attraversa la sua percezione visiva[4]:  una mano femminile solleva con un gesto arabesco la balza del lungo vestito, forse l’orlo struscerebbe una pozzanghera, forse la signora rischierebbe di inciampare in un gradino?

Longue, mince, en grand deuil, douleur majestueuse,

Une femme passa, d’une main fastueuse

Soulevant, balançant le feston et l’ourlet ;

Quale che sia la risposta, quei pochi centimetri sollevati, svelano una gamba statuaria, degna di una dea greca. E subito si sposta il campo della visione: ora è su colui che parla, che dice «io», – il poeta, in ultima istanza – che vengono appuntati i riflettori. È seduto, beve qualcosa – un caffè, del vino, un bicchiere di assenzio? –, con la mente come l’anima increspata, lui che se ne va in giro per caffè alla moda tra gli artisti dell’epoca, ora sosta in questo luogo senza nome, forse un  piccolo locale della rue du faubourg Montmartre. Getta un’occhiata sbadata oltre la vetrata. E per magia poetica, ha il tempo di vedere quel lampo che brilla nello sguardo della donna che sta passando, incrociando il suo.

Agile et noble, avec sa jambe de statue.

Moi, je buvais, crispé comme un extravagant,

Dans son œil, ciel livide où germe l’ouragan,

 Un cielo livido in cui germoglia l’uragano; gonfi di nuvolaglia incipiente sono quegli occhi dove cresce come pianta, come grano e si insuperbisce, l’uragano, vera e propria promessa di una passione che tutto travolge e annienta, come cupio dissolvi:

La douceur qui fascine et le plaisir qui tue.

Seduzione e morte che si arrestano immediatamente, perché l’attimo è fuggevole. Due secoli più tardi, un poeta moderno ovvero un cantante, Marc Lavoine, riprenderà questa figura di stile cantando gli occhidella donna amata: Elle a les yeux revolver, elle a le regard qui tue (1985).

Tornando al poeta dell’Ottocento, costui richiama indietro  la metafora atmosferica e dopo il cielo livido, dopo l’uragano annunciato ecco che il bagliore è superato dal buio in cui il desiderio ricade, come stella spenta, non appena la donna oltrepassa lo sguardo.

Un éclair… puis la nuit ! – Fugitive beauté

Dont le regard m’a fait soudainement renaître,

Ne te verrai-je plus que dans l’éternité ?

A chi non è successo, nella vita, d’intravvedere anche solo per un attimo, il tempo di un fulmine nel cielo plumbeo, il volto di qualcuno che ci apparterrà per sempre, sapendo che non si rivedrà più? Il dandy cinico e smaliziato si trova ora assillato dai dubbi e pone le ultime, vane,  domande alla donna già lontana. Gli appartiene, le appartiene e le dà del tu – come peraltro mai si fa in francese tra sconosciuti.

Se non nell’aldilà, forse potrebbero rincontrarsi qui, sulla terra; ma dove, dove? 

Ailleurs, bien loin d’ici ! trop tard ! jamais peut-être !

Car j’ignore où tu fuis, tu ne sais où je vais,

Ô toi que j’eusse aimée, ô toi qui le savais !

Altrove, ormai lontanissimo da qui, di sicuro troppo tardi o forse mai più.

Non c’è il finale edulcorato di Serendipity[5]: nessuno dei due sa dove l’altro sia diretto, quel che è certo è che se avessero potuto, si sarebbero amati. È tutto un attimo, e tutto in uno sguardo. Il poeta un tempo giovane dandy con quei suoi capelli tinti di verde, i guanti rosa, che se ne andava a spasso tenendo al guinzaglio una tartaruga, più che altro per urtare l’altrui conformistica sensibilità, il poeta di oggi, ora è definitivamente solo. I pensieri e le parole se li porta via il vento.

La rue assourdissante autour de moi hurlait.
Longue, mince, en grand deuil, douleur majestueuse, Une femme passa, d’une main fastueuse
Soulevant, balançant le feston et l’ourlet ;  

Agile et noble, avec sa jambe de statue.
Moi, je buvais, crispé comme un extravagant,
Dans son œil, ciel livide où germe l’ouragan,
La douceur qui fascine et le plaisir qui tue.    

Un éclair… puis la nuit ! – Fugitive beauté
Dont le regard m’a fait soudainement renaître,
Ne te verrai-je plus que dans l’éternité ?    

Ailleurs, bien loin d’ici ! trop tard ! jamais peut-être !
Car j’ignore où tu fuis, tu ne sais où je vais,
Ô toi que j’eusse aimée, ô toi qui le savais !  

A une passante (Tableaux parisiens), 1861
Urlava attorno a me la via assordante.
Lunga, sottile, in lutto, maestoso
dolore, alto agitando della gonna
il pizzo e l’orlo con fastosa mano,  

una donna passò, agilmente, nobile, con la sua
gamba statuaria. Ed io, come un folle bevevo nel
suo occhio– livido cielo nel cui fondo romba
l’imminente uragano – la dolcezza affascinante e
il piacere che uccide.  

Un lampo… poi la notte! – O fuggitiva
beltà, per il cui sguardo all’improvviso
sono rinato, non potrò vederti
che nell’eternità? In un altro luogo,  

ben lontano di qui, e troppo tardi, mai forse!
Perché ignoro dove fuggi, e tu non sai dove io
vado, o te che avrei amata, o te che lo sapevi!  

A una passante Traduzione a cura di Luigi De Nardis, 1964

[1] Edouard Manet, At the Café, 1879, Walters Art Museum, Baltimora (USA). I caffè frequentati dagli artisti di Parigi erano la Nouvelle-Athènes a Pigalle, il  Café Guerbois di Batignolles, la  Brasserie des Martyrs e il Café Momus. Alla brasserie si beveva la birra e si mangiavano i crauti, come per esempio alla Brasserie Lipp che esiste ancor oggi nel Quartiere Latino.

[2] Charles Baudelaire, «Les yeux des pauvres» in Les Petits Poèmes en prose, 1869, pubblicati postumi.

[…] Le soir, un peu fatiguée, vous voulûtes vous asseoir devant un café neuf qui formait le coin d’un boulevard neuf, encore tout plein de gravois et montrant déjà glorieusement ses splendeurs inachevées. Le café étincelait. Le gaz lui-même y déployait toute l’ardeur d’un début, et éclairait de toutes ses forces les murs aveuglants de blancheur, les nappes éblouissantes des miroirs, les ors des baguettes et des corniches, les pages aux joues rebondies traînés par les chiens en laisse, les dames riant au faucon perché sur leur poing, les nymphes et les déesses portant sur leur tête des fruits, des pâtés et du gibier, les Hébés et les Ganymèdes présentant à bras tendu la petite amphore à bavaroises ou l’obélisque bicolore des glaces panachées ; toute l’histoire et toute la mythologie mises au service de la goinfrerie. Droit devant nous, sur la chaussée, était planté un brave homme d’une quarantaine d’années, au visage fatigué, à la barbe grisonnante, tenant d’une main un petit garçon et portant sur l’autre bras un petit être trop faible pour marcher. Il remplissait l’office de bonne et faisait prendre à ses enfants l’air du soir. Tous en guenilles. Ces trois visages étaient extraordinairement sérieux, et ces six yeux contemplaient fixement le café nouveau avec une admiration égale, mais nuancée diversement par l’âge […].

[3] Edgar Degas, L’absinthe, 1876, Musée d’Orsay, Paris.

[4] James Tissot, October, 1877, Musée des beaux-arts de Montréal, Montréal (Québec, Canada)

[5] Film americano del 2001.

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