La Scarzuola di Tomaso Buzzi. Tra sogno e realtà.

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Jacqueline Spaccini 

L’occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose

(Italo Calvino, Le città invisibili)

Preambolo

Inizierò da una frase che l’architetto Tomaso Buzzi (1900-1981) annotò nel 1967 in uno dei suoi numerosi appunti: «Se io stesso dovessi scrivere il mio epitaffio, alla maniera di Stendhal, ecco che cosa ne uscirebbe: Milanese, visse, disegnò, amò[1]. Quest’uomo detestava il Diavolo, Mussolini e l’aglio»[2]. E, infatti, disegnò molto prima di riuscire a far sorgere una cittadella, immaginaria e ideale, in uno spazio vuoto e abbandonato. 

Tuttavia, prima di proporvi un viaggio nel luogo da lui sognato, disegnato e fatto costruire – e che risponde al nome de La Scarzuola – mi sembra necessario fare un passo indietro volgendo lo sguardo verso quel lontano passato che è il XV secolo. 

Un artista del Quattrocento che dipingesse la sua città ideale – e dunque immaginaria, non dimentichiamolo – non concepiva la nozione di ideale in maniera dicotomica, opponendola al reale. Al contrario. All’epoca, l’idealità non escludeva il volgersi verso la realtà. Anzi, il pittore e il filosofo, l’ingegnere e l’urbanista si sentivano in dovere di trovare soluzioni e strategie che permettessero alla loro città ideale di diventare reale. Principi mecenati desiderosi di passare alla posterità incaricarono gli artisti di costruire città ispirate alla tavola di Urbino[3] (penso in particolare a Francesco Sforza duca di Milano, a papa Pio II e a Vespasiano Gonzaga duca di Mantova). 

D’altronde, non va dimenticato che all’epoca un solo uomo poteva – contemporaneamente – seguire tutto e concepire il tutto, se quell’uomo era un intellettuale come Leon Battista Alberti, teorico, pittore e architetto oppure un genio come Leonardo da Vinci che era altresì inventore e ingegnere. Tutto ciò era possibile poiché non esisteva ancora la specializzazione del sapere, vale a dire la «compartimentazione» culturale che si farà strada a partire dal XVIII secolo. Un obiettivo simile figurava già nel pensiero filosofico della Repubblica di Platone (libro X), nella Città del Sole di Campanella o nell’Utopia di More. Anche lì, la parola «utopia» non ha in sé nulla del senso d’irrealizzabile, di chimerico. A riprova, si legga nel romanzo di Jules Verne, I 500 milioni della Bégum: Franceville, la città ideale e positiva ove vivono gli uomini felici, è detta utopica mentre Stahlstadt, città negativa e alienante, è detta distopica. Perciò, mentre Sforzinda[4], la città voluta dal duca Sforza, non vedrà mai la luce a causa del costo eccessivo del progetto, Pienza[5] e a maggior ragione Sabbioneta[6] e Palmanova[7] sono là per dimostrare che in una società reale può benissimo esser costruita una città ideale. Buzzi – per tornare all’oggetto della mia comunicazione – non fa che riprendere tale concetto (proprio del Rinascimento italiano) per farlo suo. 

Dopo questo preambolo, vorrei ancora fare una precisazione al riguardo dei luoghi. La Scarzuola è un luogo parzialmente abitato dalle suore di un ex-convento francescano (il convento non esiste più) e dal suo proprietario, Marco Solari, nipote ed erede di Buzzi. È situato in Umbria, nella provincia di Terni, ma da un punto di vista geografico, è più vicino a Chiusi (15 km), città toscana. Il convento, fondato nel 1218 da Francesco d’Assisi, deve il suo nome alla pianta palustre di questa zona, la scarza. 

Quel che propongo è dunque di entrare nella cittadella umbra come si entrerebbe in un romanzo: in punta di piedi, sfogliando le pagine di questo itinerario, procedendo nella lettura delle immagini e vagheggiando una storia (o forse anche più storie). 

All’origine del progetto 

Nel 1956, durante un viaggio in Messico, il marchese Paolo Misciattelli, proprietario del castello di Montegiove (in provincia di Terni) incoraggia l’architetto milanese Tomaso Buzzi ad acquistare un terreno (posto nei dintorni del castello) che conteneva, tra l’altro, una chiesa e un ex convento del XIII secolo, fondato da san Francesco di Assisi (il primo convento francescano). 

Ai nostri giorni, per giungere alla Scarzuola, occorre abbandonare l’autostrada all’uscita di Fabro, superare Fabro Scalo, superare due colline (Montegabbione e Montegiove), e infine prendere una strada stretta, non asfaltata, ghiaiosa e polverosa, piena di curve su tre chilometri, in fondo alla quale si giungerà davanti alla porta d’ingresso del convento circondato da muri alti. E… non si vede nulla. Una volta entrati nel cortile, continueremo a non vedere nulla, tranne l’arcata della chiesetta. 

Questo perché Buzzi ritarda volontariamente l’effetto sorpresa che dà la visione della Buzziana (altro nome della Scarzuola) e procede esattamente come l’arte barocca che nasconde la visione della Basilica di San Pietro a Roma grazie al Borgo Spina (prima dell’intervento di Mussolini e dei suoi architetti Piacentini e Spaccarelli)[8] . 

1958-1981: l’edificazione della Buzziana 

A partire dal 1958 e fino al 1981 (anno della sua morte), Buzzi si mette d’impegno a realizzare la sua città sognata che chiamerà la Buzziana (sullo stile di Sforzinda). Subito prende la decisione di andarvi a vivere: archivi, oggetti d’arte accumulati nel corso degli anni, persino i suoi domestici lo seguiranno, benché nel momento del suo insediamento, Buzzi rinunci all’elettricità, al riscaldamento e al telefono. Più che a una città ideale, Scarzuola prenderà le sembianze di un eremo. 

Buzzi sa perfettamente come edificare la sua città immaginaria. Ecco le idee motrici dell’«architetto volante» (la definizione è sua): a) la città non dovrà mai essere terminata per – scrive – ottenere l’incanto del Non-Finito che si apparenta a quello delle rovine[9]; b) come nella villa dell’imperatore Adriano a Tivoli, dovrà riunire e mostrare tutte le suggestioni architettoniche e le manifestazioni artistiche dei paesi in cui si è piacevolmente soggiornato; c) dopo la morte del suo creatore, la natura riprenderà il sopravvento e tutto pian piano sparirà. 

Da qui, la scelta del materiale per la costruzione degli edifici: il tufo, pietra generalmente rossastra, porosa e friabile. Inoltre, è una delle pietre tra le più comuni nell’Umbria marittima, nella Toscana orientale e nell’alto Lazio. Ecco perché Buzzi dichiarerà che La Scarzuola è la sua autobiografia in pietra, comprensibile solo a pochi eletti, unhappy few[10]

La caccia al tesoro 

Ho detto che il luogo non si rivela, di primo acchito. Va scoperto. E come in una caccia al tesoro che si rispetti, le scoperte si fanno poco alla volta. Le tre zone della Scarzuola (o Buzziana) sono: 1. La chiesa annessa al convento, 2. Il giardino, 3. Gli edifici. Per vedere tutto, il percorso sarà ellittico: iniziatico e filosofico secondo le intenzioni del suo autore. 

Quel che rende interessante il muro del convento sono i cipressi che lo circondano. Anche se la simbologia del cipresso, legata al culto del dio Plutone, guardiano dei morti, ci rimanda ai viali che ornano o che conducono ai cimiteri, dimentichiamo troppo spesso che quest’albero è anche e soprattutto simbolo di longevità e di santità. Poco più in là, sotto il portico della chiesetta, si può ammirare un affresco che rappresenta il santo, ma quel che attrae di più l’attenzione è l’immagine del santo incisa (forse con un coltellino) su una porta del convento e che reca la data del 1738: essa rappresenta Francesco d’Assisi come un giullare ed esibisce gli organi genitali del santo come a indicarne la follia[11]. Nei fatti, tali dovevano apparire gli atteggiamenti di un uomo che rinunciando alla ricchezza materiale al suo patronimico arrivasse all’annullamento di sé a profitto di una vita in cui – almeno agli occhi degli altri – il dubbio permanente è sovrano. L’interno della chiesetta mette in mostra gingilli pseudo religiosi, paccottiglia kitsch di cui si addobbano alcuni luoghi consacrati, ma lì, Buzzi non poteva farci nulla. 

Uscendo dalla piccola chiesa, si accede a una distesa verde: più tardi, ci si accorgerà che molto di più di questo. È un giardino rinascimentale, detto anche all’italiana, quel che qui si declina: un giardino ricco di scene mitologiche e allegoriche, in cui l’elemento musicale[12] è costituito più spesso da una fontana. Appaiono via via le siepi a spirale, la geometria, l’architettura vegetale, la simmetria… È chiaro che non si tratta di un’architettura urbana, bensì di un’architettura che si fa testamento culturale e sapienziale. Alzando gli occhi, scopriremo  di Buzzi l’arme, con immagini massoniche (l’occhio alato, i rami di acacia, le stelle, e così via). 

A metà tra giardino all’inglese (rocce, templi e rovine) e quello rinascimentale (statue e fontane), la Scarzuola diventa un luogo che parla o meglio che interroga il visitatore, mettendone alla prova lo spirito che si apre alla filosofia, al senso della vita, quello che ogni essere umano scopre strada facendo, durante la sua esistenza. 

Parallelamente, Buzzi concepisce il suo giardino in maniera strategica: il visitatore in cerca di verità procede senza supporre che l’architetto abbia pianificato il suo giardino secondo un effetto di ritardo deliberato affinché l’ospite possa provare all’improvviso un sentimento di meraviglia e stupore. Per esempio, quando dopo aver svoltato al primo angolo della costruzione, lasciando il convento dietro di sé, il turista si troverà confrontato a un dilemma: tre sentieri si aprono dinanzi a lui. Quale prendere? Costui ignora che il primo che si offre alla vista e che conduce al convento è quello della gloria Dei, il secondo che s’interrompe bruscamente e non conduce da nessuna parte è quello della gloria mundi e il terzo, infine, porta dapprima a un giardino segreto e poi a una barca (in pietra) pronta a salpare verso l’Isola di Citera (abbiamo nella mente il quadro di Watteau[13]) è quello della gloria amoris

Da dove trae queste idee, Buzzi? Sono forse frutto della sua fantasia? No. All’origine del giardino della Scarzuola, c’è l’Hypteronomachia Poliphili, opera di Francesco Colonna che dalla fine del XVI secolo molti intellettuali hanno provato a decrittare con alterne fortune. Il titolo significa «il sogno di Polifilo» e, senza troppo entrare nel valore della trama[14], questo testo ha comunque esercitato una notevole influenza sull’arte dei giardini[15], non solo in Italia. Ma la Buzziana non si esaurisce nel suo giardino. Anzi. Quando si arriva al terzo centro d’interesse, gli edifici, ben presto ci si accorge che il sito è una sorta di pastiche architettonico. 

La cittadella (continuerò a chiamarla così) si presenta dunque come una serie di citazioni, una sorta di omaggio colto ma anche di canzonatura dell’arte che l’ha preceduta. L’insieme può dare l’impressione di un termitaio; d’altronde, nei suoi appunti, Buzzi annota: «I termitai e gli alveari sono i soli esempi di città ideali»[16]. Ma quel che Buzzi teme e vuole evitare a ogni costo è la trasformazione di questo luogo in una sorta di Vittoriale di D’Annunzio, vale a dire un’accozzaglia d’idee e oggetti frivoli. Non ha in mente nemmeno una casa d’artista alla Goncourt, né – scrive – quella di un collezionista raffinato. Il suo luogo deve incarnare la sua biografia di artista. 

L’acropoli, i teatri, l’occhio di Buddha 

E poi tutt’a un tratto la rivelazione: sette teatri si innalzano davanti allo spettatore, un emiciclo ai piedi, un palcoscenico un po’ più distante e un’acropoli in alto sulla destra. A eccezione della zona sacra (chiesa e convento), qui «tutto è teatro», scriverà Buzzi. Sull’acropoli, si possono riconoscere senza sforzi d’immaginazione: il Colosseo, il Partenone, un’abitazione razionalista (cioè alla maniera dell’architettura fascista), Juana Coeli (la porta del Cielo), il tempio di Ercole (alcuni dicono di Vesta, per errore), una piramide e la Torre dei Venti (ma io opto per la torre dell’orologio di Mantova, del 1472). In basso, sulla destra, troviamo il tempio di Flora e di Pomona (dee romane dei fiori e dei frutti), costruito alla maniera del tempietto di Bramante, quello che si trova nel cortile del convento di San Pietro in Montorio, a Roma. 

Ancora in basso, ma dalla parte opposta, l’occhio di Buddha ospita l’ufficio che fu dell’architetto. Simbolo esoterico, indica l’occhio dell’anima, cioè la conoscenza interiore, la conoscenza di sé. Al centro dell’emiciclo-palco, v’è una colonnetta[17] a simboleggiare l’ombelico óμφαλός. L’ombelico del mondo. Nondimeno, Buzzi non dimentica il luogo in cui ha fatto costruire la sua cittadella: sicché il tempio di Apollo, dio del Sole, dio delle Arti, figlio illegittimo di Zeus, ospita nel suo centro perfetto, una singolare meridiana: lo gnomone (l’ombra proiettata dell’ago del quadrante), infatti, è in realtà un albero, un cipresso attraversato da un fulmine, ormai morto, ma rimasto in piedi. In questo modo, l’architetto ha voluto conservare la memoria «vivente» dello stretto rapporto tra Cielo e Terra in quel luogo, come testimonianza del forte campo magnetico del sito. D’altra parte, la località di Montegiove deve il suo nome all’antica presenza di un tempio consacrato a Zeus, dio dei fenomeni atmosferici, che sempre viene rappresentato con una folgore in mano. 

Senza attardarsi oltre in questa zona, ci si concentrerà sul sentiero «iniziatico» concepito da Buzzi per il visitatore che qui si trovi a passeggiare. Si passa affianco a un pergolato verdeggiante (se è stagione), una sorta di sentiero che conduce al mascherone, ma che permette nel frattempo di ammirare, a sinistra e a destra, la torre della Meditazione, la Casa degli Stemmi, la Grande Madre (anche detta Iside dea madre luciferina, cioè portatrice di luce) e il già menzionato tempio di Apollo. Qua e là ci sono ancora dei simboli massonici: la squadra, il compasso, la cometa, l’occhio e il pavé mosaico. È appena il caso di ricordare che la massoneria esige la sete di conoscenza, una cultura al grado più alto, mai ostentata, sempre discreta. In un angolo più remoto, s’intravvede la torre di Babele, summit di conoscenza. 

Proseguendo il percorso tracciato dall’architetto Buzzi, si continua a scendere arrivando alla porta di Giona (la bocca aperta di un pesce in pietra), mentre dal lato opposto lo sguardo di un altro mascherone (dalle fattezze di orco), che secondo Buzzi incarna il popolaccio, la volgarità[18], è fisso sul visitatore. La balena inghiotte il turista come inghiottì Giona, come lo squalo inghiotte Pinocchio, ma la discesa agli inferi è in realtà – secondo il suo disegnatore – il cammino verso la purificazione. In parole povere, la metafora è questa: per poter arrivare a vedere la luce, occorre scendere nel fondo oscuro di un pozzo e poi risalire verso la superficie. L’oscurità del pozzo viene rappresentato dalla torre della Solitudine che propone anche una pausa-bilancio prima di intraprendere l’ultimo cammino – la risalita – che conduce alla salvezza e al significato profondo della vita. Alla fine dell’arrampicata, alzando gli occhi, si legge una citazione tratta dalle Bucoliche di Virgilio: Amor vincit omnia, l’amore vince tutto. 

Può apparire bizzarro che tale frase sintetizzi l’insegnamento artistico della Scarzuola, luogo isolato, senza legami col mondo esterno, in cui Tomaso Buzzi visse fino alla sua morte in piena solitudine… Prima di morire, l’architetto milanese esigette che la natura facesse nuovamente valere i suoi diritti sull’arte; d’altra parte, fu proprio per questo che utilizzò il tufo come materiale di costruzione. Ma nel 1989, il Ministero dei Beni Culturali italiano dichiarò il sito patrimonio artistico, bloccando così la sua degradazione e impedendo che cadesse in rovina[19]

Della Scarzuola qualcuno ha scritto che era una città ideale del Quattrocento rinchiusa in una cinta muraria medievale[20]. E se può dare la forte impressione di essere un pastiche culturale, se non addirittura l’elogio delle citazioni artistiche, à la manière de, è villa di Adriano a Tivoli, a mio avviso, il vero ipotesto[21] architettonico della Buzziana. L’imperatore romano che disegnò lui stesso il piano e gli edifici della sua villa voleva ricreare infatti il mondo che aveva visitato e riprodurne le bellezze artistiche sotto forma di copie. L’architetto milanese, lui pure, sembra voler dar vita a luoghi che, ospitati idealmente nella immaginazione, chiedono di esistere nella realtà. 

Tomaso Buzzi si dedicò al suo progetto negli ultimi venticinque anni della sua vita. Dopo essersi escluso dalla vita architettonica italiana della sua epoca in ragione del suo rifiuto di appoggiare il regime mussoliniano, s’era riconvertito in architetto d’interni (peraltro, molto ben pagato[22]). Ostile all’architettura razionalista, è tuttavia uomo del suo tempo, giacché pur opponendosi al fascismo e all’idea estetica che promuove, i suoi anni di formazione si rivelano impregnati di funzionalità razionalista, anche se nulla è pratico né funzionale negli edifici di Buzzi. 

Il che non è senza conseguenza visto che da un lato il regime fascista esalta il funzionalismo e dall’altro favorisce l’idealità (in quanto mito). Ma è un funzionalismo al contempo individualista e di massa, popolare e populista. Orbene, se Buzzi è interiormente aristocratico, ha pur tuttavia lavorato per molti anni con Gio Ponti[23]. Ecco perché se per un verso bandisce la magniloquenza dai materiali di costruzione che privilegia, per l’altro accetta le forme geometriche facilmente riconoscibili e un gusto per la citazione altisonante. 

Il rifiuto più eclatante di Buzzi si concretizzerà nella rinuncia – peraltro plausibile economicamente – al marmo, il quale si fa forte dell’eternità trionfalistica che l’architetto milanese sembra detestare sopra ogni altra cosa: Buzzi è un elitista: il genius loci si sottrae agli sguardi superficiali. Il senso della Scarzuola si può afferrare solo se si riesce a decriptarne i simboli, se ne colgono i propositi soggiacenti. Città dei sogni per qualcuno, città sognata da uno solo. 

Sia quel che sia, la Scarzuola è paradossalmente la realizzazione di un sogno rivoluzionario in un contesto organizzato e conservatore di un neo-neomanierismo architettonico volto verso la citazione. 


NOTA. Questo articolo è la rielaborazione in lingua italiana di un mio intervento al convegno « Cités imaginaires », tenutosi presso l’Université de Caen Basse-Normandie (Francia), 27-28 novembre 2009.

[1] La frase di riferimento, voluta da Henri Beyle in arte Stendhal prima di morire, è  incisa sulla sua stele funebre: Arrigo Beyle. Milanese, scrisse, amò, visse (Parigi, Cimitero di Montmartre).

[2] Nota n. 29 del 4 marzo 1967 tratta dal suo quaderno di appunti manoscritti. Vedi Enrico Fenzi (a cura di), Tomaso Buzzi. Lettere Pensieri Appunti (1937-1979), Cinisello Balsamo (MI), Silvana Editoriale, 2000, p. 6 (salvo indicazione contraria, tutte le citazioni di Buzzi provengono da questo libro). 

[3] La città ideale (1444) dapprima attribuita a Piero della Francesca poi a Luciano Laurana, in seguito a Francesco di Giorgio Martini e dal 2006, sia pure con grandi cautele, a Leon Battista Alberti.

[4] Città concepita dall’architetto fiorentino Antonio di Pietro Averlino detto il Filarete. Deve il suo nome al protettore, e finanziatore, il duca di Milano Francesco Sforza. Alla morte del Filarete, il progetto fu preso in mano da Francesco di Giorgio Martini e modificata infine da Leonardo da Vinci che doveva dirigerne i lavori.

[5] Anticamente chiamata Corsignano, questa contrada medievale sarà trasformata in città rinascimentale da Bernardo Rossellino, secondo il modello della Città ideale di Urbino, da papa Pio II (al secolo, Enea Silvio Piccolomini, nativo di questa città) dopo la sua elevazione al soglio pontificio (verso il 1460). La sua morte improvvisa interromperà i lavori nel momento in cui si erano realizzati un edificio istituzionale e la cattedrale con relativa piazzetta. Da allora, la città è rimasta pressoché immutata.

[6] Sabbioneta (Mantova) è una città-fortezza fondata nel 1591 da Vespasiano I di Gonzaga per contrariare le mire espansionistiche dello Stato pontificio e di Venezia. 8 Palmanova (Udine) è situata nella regione Friuli.-Venezia Giulia.

[7] Altra città-fortezza, ma a forma di stella, fu costruita dalla Repubblica di Venezia nel 1593, in memoria della vittoria veneziana sull’impero ottomano.

[8] L’arte barocca ha per oggetto il gusto edonistico per il Bello. Il mezzo per goderlo appieno consiste nel suscitare un effetto di meraviglia nello spettatore, stupore concepito dagli artisti del XVII secolo come approccio estetico. Il Borgo Spina nascondeva la visione frontale della Basilica di San Pietro fino al 1936. In quell’anno, La Spina fu demolita per lasciar posto alla nuova via della Conciliazione (1936-1950).

[9] FENZI, Enrico (dir.), Tomaso Buzzi, op. cit., p. 62 (nota 34 del 1967).

[10] Unhappy few sono gli spiriti rari d’elezione, i soli congeniali a Buzzi, i pochi infelici eletti (nota 96 del 1975). ) Il riferimento (ma rovesciato) va direttamente all’Enrico V di Shakespeare, quando nella battaglia di Azincourt, il re incita i suoi, ormai stremati, urlando: O noi pochi, noi felici pochi!Quanto al significato dei simboli, Buzzi segue le idee del gesuita Athanase Kircher (1602-1680), per il quale ogni simbolo contiene una molteplicità infinita di significati (cfr. http://kircher.stanford.edu).

[11] Concetto caro al regista Roberto Rossellini che nel 1950 girò il film Francesco giullare di Dio, ponendo l’accento sulla sua santità basata sulla follia e l’ingenuità infantile del santo.

[12] Al posto di musicale, in francese avevo detto chantant, giacché – in lingua francese – tutto quanto sia chantant, rinvia all’italiano, in primo luogo, tale è l’effetto musicale che tale lingua esercita sulle orecchie di uno straniero.

[13] In realtà, i quadri di Jean-Antoine Watteau che ho nella mente sono due: Pèlerinage à l’île de Cythère (1717, Louvre, Paris) ed Embarquement pour Cythère (1718, Schloss Charlottenburg, Berlin).

[14] È la storia di un sogno nel sogno, in cui si raccontano le prove amorose di Polifilo – accompagnate da una descrizione accurata dei giardini che il protagonista incontra nel suo sogno. Polifilo («colui che ama Polia») ha affascinato filosofi e scrittori quanto architetti e giardinieri paesaggisti. (Ancora oggi, questo libro enigmatico ne ispira altri, come per esempio: Il codice del Quattro, che però è un thriller). Punto di riferimento per tutti coloro i quali si interessano al mondo onirico, questa lettura va nel senso di Buzzi che concepiva ogni cosa umana come sogno, regola cui ai suoi occhi non si sottraeva neppure la vita.

[15] Il primo che mi sovviene è il parco di Bomarzo, a Viterbo. Le sue statue si ispirano ai disegni contenuti nel Sogno di Polifilo.

[16] Questa frase è stata citata a memoria da Marco Solari, durante una delle mie visite alla Scarzuola, citando una delle annotazioni sparse lasciate dall’architetto milanese. Secondo le sue affermazioni, esistono migliaia di appunti manoscritti e non ancora inventariati né classificati nel laboratorio della Buzziana. 

[17] Pezzo che apparteneva alla colonnata di Piazza San Pietro in Roma e dunque eseguita dal Bernini. Durante il suo pontificato, Paolo VI ne fece dono a Buzzi.

[18] Il Mascherone del Teatro. Buzzi pensava di farne una fontana, la Fontana del Popolo. In realtà, il Mascherone dissimulava il suo «odio verso la plebaglia» (frase manoscritta da Buzzi accanto allo schizzo). Da confrontare con il celebre mascherone dell’orco luciferino nel bosco dei misteri di Bomarzo (VT).

[19] Buzzi è contraddittorio: da un lato definisce parecchie volte la Scarzuola come suo testamento architettonico, dall’altro vorrebbe che alla sua morte tutto scompaia. Da un canto, rivendica questo sito come la summa della sua esperienza passata, dall’altro afferma di ispirarsi ai progetti futuristi ante litteram dell’architetto utopista Charles Nicolas Ledoux (1736-1806).

[20] Scrive Enrico Lenzi, nel libro che raggruppa le note di Buzzi: «quasi un’immagine quattrocentesca compressa in una struttura medievale» (op. cit., p. 26).

[21] «Le rovine della Villa, ancora così imponenti dopo quasi due millenni, hanno affascinato gli architetti e gli artisti di tutte le epoche, che qui sono venuti alla ricerca di ispirazione, per copiarne le forme o carpire i segreti tecnici di tanta solidità. Villa Adriana fu visitata da Andrea Palladio, da Raffaello, Michelangelo, Leonardo, e poi ancora da Borromini, Piranesi, Canova, e da Quarenghi che divenne l’architetto di Caterina di Russia. Antonio da Sangallo, Pier Leone Ghezzi, Giovanni da Udine e moltissimi altri artisti ci hanno lasciato schizzi e disegni delle sue rovine […].Il gran numero di illustri visitatori dimostra che Villa Adriana non fu solo uno dei momenti culminanti dell’architettura romana, ma anche modello e l’archetipo della grande architettura del Rinascimento, specie quella delle Ville. Non è certamente un caso che una delle prime e più antiche ville rinascimentali, la Villa d’Este, sia stata costruita nella vicina Tivoli» (cfr. http://www.villa-adriana.net).

[22] Conta tra i suoi clienti i migliori nomi dell’aristocrazia italiana (Volpi, Visconti di Modrone, Spinola Strozzi, Cicogna, Doria, Brandolini) così come la grande borghesia (Agnelli, Falk, Pirelli, Invernizzi, Feltrinelli).

[23] Gio Ponti (1891-1978), architetto e designer italiano. Fondatore della rivista Domus (1928).

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