“Ninfee nere” di Michel Bussi

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di Giacomo Torelli

In passato avevo letto un libro dello stesso autore, intitolato Non lasciare la mia mano, la cui storia mi ha appassionato particolarmente; mi intrigava l’inusuale avvicinamento dell’arte al mistero, che è la fondamentale caratteristica del romanzo e la chiave del suo successo. Più recentemente, dopo aver visitato la mostra di Monet a Milano, ho letto Ninfee nere, pubblicato in italiano nel 2016. 

In una delle prime scene del romanzo viene ritrovato in un fiume un cadavere, nella cui giacca si trova una cartolina con il quadro Ninfee blu di Monet. Sulla cartolina è scritta una frase enigmatica, che per tutta la storia i protagonisti cercheranno di decifrare e che infine permetterà loro di individuare il colpevole dell’omicidio. 

Il romanzo in buona parte è ambientato a Giverny, luogo in cui visse Monet nei suoi ultimi trent’anni di vita. E Ninfee bluritrae una parte dello stagno di Giverny. Vi si vedono le ninfee e la superficie dell’acqua, ma sono assenti cielo e orizzonte; le pennellate ampie e libere ricordano perfettamente la forza e la grandezza della natura selvaggia, ma al contempo sono pastose e dense e rimandano anche alla delicatezza e alla fragilità del fiore. In questo modo la pennellata risulta libera anche grazie al minimo riferimento a forme reali e all’assenza della finitura dei bordi. Le forme delle ninfee non sono realistiche e il quadro di primo impatto appare astratto. I colori sono molto saturi e appartengono alle varie tonalità di verde e di blu. Solo i petali dei fiori delle ninfee tendono all’azzurro e al giallo chiaro. Le ninfee e la superficie d’acqua sono bidimensionali e creano un’unica superficie non distinguibile per l’assenza di un punto di riferimento nel quadro. Si nota infatti la mancanza di un punto fermo come un albero o una roccia. Sembra infatti una porzione di spazio infinito delimitato da quattro lati. 

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