di Mattia Jose Contreras Torres
Il libro La luna e sei soldi, pubblicato da William Somerset Maugham nel 1919, racconta la vita romanzata di Paul Gauguin (chiamato Charles Strickland nel libro), personalmente conosciuto dall’autore che, tuttavia, non manca di aggiungere al racconto – per renderlo più intrigante – alcune sfumature di fantasia.
Charles Strickland, agente di cambio a Londra, a quarant’anni pianta moglie, figli e una comoda vita borghese per andare a vivere a Parigi, senza neppure la scusa di scappare con un’amante segreta. A Parigi comincia a dipingere, ma non vendendo neanche una tela si riduce ad essere un barbone, deriso per le sue scarse doti artistiche. Dopo circa sei anni, Strickland decide di spostarsi a Marsiglia, dove conduce una vita ancor più misera di quella precedente. Rimane poco a Marsiglia, poiché si imbarca su una nave che lo porterà a Tahiti (Polinesia francese). A Tahiti l’aura del suo genio misconosciuto in vita, una vita da pezzente dal cinismo quasi autistico, si espande, fino ad arrivare a essere considerato uno dei pittori più importanti della storia dell’arte del XX secolo.
Sin dal primo incontro con Strickland, l’autore ne osserva la natura molto riservata: il pittore parla a malapena, risponde a monosillabi, quasi mostrandosi insensibile a ciò che c’è intorno a lui. Strickland è un uomo stanco della solita vita. In cerca di un’avventura, poco gli importa se per realizzare il suo sogno di diventare pittore deve mollare tutto. Partendo per Parigi comincia un’altra vita. Ma l’incuranza riguardo alla sua famiglia abbandonata appare a dir poco abominevole, come se una forza maligna animasse Strickland a perseverare nella sua totale indifferenza, portandolo a fregarsene delle opinioni altrui, che lo descrivono come una bestia di uomo, spregevole, cinico, egoista, insomma una vera “canaglia” (lo scrittore lo designa così in non pochi capitoli del libro). Lo stesso scrittore considera Strickland una persona orrenda, tuttavia ne è fortemente attratto, giacché lo percepisce come una persona non comune, imprevedibile nei modi e nelle idee. La pittura rimane sempre il suo eterno sogno. Eppure neanche le sue doti artistiche sono apprezzate a Parigi, dove è sbeffeggiato da tutti. Nessuno capisce il genio che si cela dietro la sua meschina figura. Ma a Strickland non importa se la gente pensa male di lui e ne disapprova l’arte. È indifferente a tutto e a tutti. Del resto “La bellezza è qualcosa di strano e meraviglioso che l’artista plasma dal caos del mondo nel tormento della sua anima. E quando l’ha creata, non a tutti è dato di comprenderla. Per riconoscerla deve ripetere l’avventura dell’artista”. “La passione che dominava Strickland era la passione di creare bellezza”.
Persino lo scrittore narratore, abituato alle opere dei maestri del passato, trovatosi a guardare i quadri di Strickland li trova rozzi, pure nella loro tecnica, non comprendendo la semplificazione a cui Strickland sembra mirare. Tuttavia percepisce nei suoi quadri una forza reale, un’emozione, tanto da definire Charles come “uno spirito tormentato che si batte per liberare l’espressione”. Per Charles i colori e le forme hanno un significato particolare. Sente la necessità di comunicare qualcosa e crea forme e colori con quest’intento. Semplifica o distorce la realtà se questo lo aiuta ad avvicinarsi a ciò che cerca. L’apparenza non ha alcuna importanza per Charles; cerca ciò che ha significato per lui. La sua opera ha una certa analogia con Cézanne e Van Gogh. Ma nutre scarso interesse per gli impressionisti la cui visione ritiene banale anche se ne ammira la tecnica. Ha grande ammirazione per Velazquez, Chardin e Rembrandt.
Andato a vivere in Polinesia, Strickland si sposa con un’indigena da cui ha un figlio e con loro vive in una piccola casa di legno nella natura più incontaminata, lussureggiante e colorata ai margini della civiltà. Vive da primitivo e non smette di dipingere. Si ammala di lebbra e muore. Quando il medico giunge presso la sua dimora (troppo tardi) scopre nella piccola casa qualcosa di straordinario: la sua ultima opera, il suo capolavoro. Tutta la casetta appare interamente dipinta, dal pavimento al soffitto. “Era una meraviglia indescrivibile, misteriosa, che gli toglieva il fiato e gli dava una sensazione che non era in grado di comprendere o analizzare, un senso di timore reverenziale e insieme di gioia quale potrebbe provare un uomo che aveva scavato nelle profondità nascoste della natura e aveva scoperto segreti stupendi e spaventosi a un tempo”. Consapevole del fatto che sarebbe stata la sua ultima opera, Strickland ha dato la piena espressione di sé, trovando finalmente la pace. Ha detto tutto quello che sapeva della vita, facendo uscire il demone che aveva in sé. Il soggetto dell’opera è una visione degli inizi del mondo, del Paradiso terrestre, con Adamo ed Eva, un inno alla bellezza della forma umana, l’esaltazione della natura, sublime, indifferente, incantevole e crudele. Riesce a rendere il senso arcano dell’immensità dello spazio e dell’infinità del tempo. Vi sono alberi di cocco, banani, avocado, poinciana. I colori sono familiari e hanno un significato proprio. Gli uomini e le donne sono nudi, sono parte della terra, dell’argilla con cui sono stati creati, hanno qualcosa di divino.
In Strickland come in Gauguin l’uomo è intrinsecamente legato alla sua opera: “L’opera rivela l’uomo”. “Nessuno può produrre l’opera più distratta senza svelare a un osservatore acuto gli intimi segreti della sua anima”.
Romanzo avvincente e ben scritto. Avvincente soprattutto la parte del libro ambientata a Parigi, città che vede la trasformazione di un uomo qualunque in pittore “maledetto”.