di Sabrina Pasquale
Durante la sua intensa e ricercatissima vita da romanziere naturalista, Émile Zola si ritrovò a Roma nell’autunno del 1894 per riflettere sul ruolo della religione nella società moderna alla fine del XIX secolo. Si soffermò per diverse settimane nella città di Leone XIII, senza poter avere un’udienza con il pontefice, soprattutto per comprendere perché il suo libro Lourdes, da poco pubblicato, fosse stato condannato all’Indice. In compenso, si circondò di molti personaggi influenti e poté beneficiare della loro ospitalità.
Questo romanzo di successo, seppur dimenticato per anni, ispirò autori del calibro di Pirandello e Fogazzaro. Roma è il secondo libro della trilogia Les Trois Villes, composta tra il 1893 e il 1898. Il personaggio principale è il giovane abate Pierre Froment, che racconta le sue esperienze durante i suoi pellegrinaggi partendo da Lourdes, poi Roma e infine Parigi.
L’abate, come Zola, non desidera altro che essere ricevuto dal papa per avere la possibilità di spiegare di persona le ragioni che lo spinsero a redigere il suo libro La Rome nouvelle, che rischia di essere inserito nell’Indice dei libri proibiti, in quanto auspica uno svecchiamento della Chiesa romana accordando gli ideali della carità cristiana con quelli della giustizia sociale. Padre Froment, vagando per le strade della città si accorgerà ben presto di essersi illuso del rinnovamento della Chiesa e che il mito della grande Roma, visto da un altro paese, si era sgretolato nella crisi economica postunitaria e nelle speculazioni edilizie del nascente quartiere Prati.
Qui, come in molti romanzi, la storia si intreccia ad intrighi amorosi, carichi di passione e pathos, tra i nobili Boccanera Dario e Benedetta, descrivendo allo stesso tempo usi e costumi di una società che sta mutando, di una città che dopo il 20 settembre 1870, con l’annessione di Roma al Regno di Italia, si trovò a gestire diverse situazioni e diversi problemi, tra cui quello del potere temporale dei papi.
Grazie alla ricerca dettagliata di Zola, i lettori del XXI secolo riescono oggi a “vedere” Roma attraverso i suoi occhi, secondo la sua acutissima capacità di osservazione, che sapeva andare aldilà di quanto i vecchi dagherrotipi dell’epoca ci permettono di vedere, come scritto da Emanuele Trevi nella prefazione dell’edizione del 2014.
Molti sono i paragrafi dedicati ai monumenti e alle opere d’arte. Padre Froment, nell’estenuante attesa dell’udienza dal Santo Padre decise di vivere la città. Inizialmente da solo, con qualche guida dell’epoca, e poi in compagnia di altri personaggi, come Narciso Habert, appassionato di Botticelli. Zola scrisse che il suo Pierre Froment era estasiato sulla terrazza del Gianicolo nel riconoscere i monumenti – come capita oggi ai romani e ai turisti affacciandosi a mezzogiorno al colpo del cannone – così come li aveva studiati sulle carte e fotografie in Francia.
Il suo viaggio iniziò così:
«Durante la notte il treno aveva avuto molti ritardi tra Pisa e Civitavecchia, e stavano per suonare le nove antimeridiane quando l’abate Pierre Froment, dopo un arduo viaggio di venticinque ore, scendeva a Roma. […] E, subito, davanti alla stazione, essendo salito in una delle piccole carrozzelle scoperte, disposte lungo il marciapiede, si pose accanto la valigia, dopo aver dato l’indirizzo al cocchiere:
— Via Giulia, palazzo Boccanera. Era un lunedì, il 3 di settembre; una mattina dal cielo limpido, d’una purezza, d’una dolcezza mirabile. […] Ma quasi subito, giunto sulla piazza delle Terme dopo aver fiancheggiato gli alberi del piccolo giardino verdeggiante, l’uomo si volse, sempre sorridente, ad indicare, con la frusta, le rovine. – Le terme di Diocleziano[…]
Da qui il cocchiere indicò all’abate, stremato e curioso: il Quirinale, la Banca Nazionale, Villa Aldobrandini e dopo una curva, alla fine di Via Nazionale, la colonna Traiana e ancora tutti gli altri palazzi lungo la via verso il Tevere; era sceso dalla stazione da pochi minuti e già “lo stupore di Pierre cresceva davanti all’aspetto imprevisto delle cose”. Sceso dalla carrozza si trovò in via Giulia “che si stende in linea retta per cinquecento metri dal palazzo Farnese alla chiesa di San Giovanni dei Fiorentini […]».
Si potrebbe andare avanti per molte pagine ancora. Quello che colpisce non sono gli elenchi di monumenti presenti a Roma – descritti in modo superficiale, che dà al lettore la sensazione di aver studiato una buona guida della città – ma sono le immagini descritte nelle diverse ore del giorno dallo stesso Zola e raccontati dal suo Pierre Froment. Molte delle quali osservate dalla finestra del Palazzo Boccanera, edificio tratto dalla fantasia dello scrittore, il quale si ispirò a Palazzo Sacchetti progettato da Antonio da Sangallo il Giovane nel 1542 a Via Giulia.
Durante il secondo giorno, Padre Froment attraversò Via del Corso in carrozza e deluso da quell’urbanistica soffocante che gli privava la vista, una strada priva di luce e di spazio, non riuscì a provare lo stupore che ebbe da altri punti di vista. In questa via l’abate però ebbe una rivelazione che Zola non si risparmiò dal raccontare: «il Corso […] quel contatto inevitabile che permetteva gli incontri desiderai, lo sfoggio delle vanità esaudite, l’appagamento delle curiosità”. Per poi rifugiarsi sotto gli alberi della terrazza del Pincio per avere un po’ di refrigerio e godere della vista sulla città, dove aldilà del Tevere appariva San Pietro con il nascente quartiere Prati, tra il Gianicolo e Monte Mario. Un lettore, soprattutto se conosce Roma, non può far a meno di dire: “Sì, ancora oggi è così!»
Molti siti archeologici e molti artisti sono stati presi in considerazione da quello che si potrebbe definire un attore non protagonista, Narciso Habert. Colui che avrebbe potuto aiutare l’abate ad incontrare il papa grazie a suo cugino Gamba del Zoppo.
Habert aveva una passione e ammirazione per Botticelli da entrare in estasi ogni qual volta avesse la possibilità di entrare nella Cappella Sistina. Froment invece fu colpito da Michelangelo, tutto il resto sparì, un’emozione tanto forte da farlo sussultare di gioia, mentre il suo caro Narciso era rimasto a contemplare Botticelli, per l’eleganza, grazia e sensualità sconosciuta al Buonarroti, definito da costui poco più che un muratore. Che aberrazione!
Ma sono questi luoghi, ricchissimi di opere d’arte, raccontati dai personaggi che rendono semplice la lettura di questo lungo romanzo dello scrittore parigino che Emanuele Trevi definì: “Un’immagine del passato credibile e concreta che solo grandi artisti sono capaci di regalare».