Il ritratto di Dorian Gray

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di Gaia Moretti*

Il ritratto di Dorian Gray, opera dello scrittore irlandese Oscar Wilde, nato in un ambiente colto e spregiudicato, dotato di un brillante ingegno, che lo portò a essere una delle personalità dominanti nei circoli letterari inglesi e francesi, può essere considerato un inno all’estetica e al narcisismo nonché al mondo dell’arte, che l’autore definisce “una specie di autobiografia” nella quale gli uomini “hanno perso il senso della bellezza astratta”.

Questa frase racchiude in sé uno dei pensieri dell’autore, il quale si figurava il mondo diviso in due emisferi: quello della realtà e quello dell’arte.

Il primo rappresenta la vita quotidiana, fatta di giorni di sole e giorni pioggia; ma come disse Eric Draven, interpretato dall’illustre attore Brandon Lee nel film “il Corvo”, “non può piovere per sempre” e quindi si passa al secondo emisfero, pieno di bellezza, quasi surreale che appassiona l’uomo e lo coinvolge in un piano “superiore”.

Realtà e fantasia, primo e secondo livello, due mondi che convivono paralleli ma che a differenza delle rette che mai si incontrano, si compenetrano e generano emozioni e sinergie ognuno all’interno dell’altro.

Infatti, l’arte oltre ad essere un mezzo per sfuggire dalla realtà, è anche un mezzo per raggiungere l’immortalità. Ne è un chiaro esempio l’opera prima citata, Dorian Gray, nella quale il protagonista, ritratto da Basilio Hallward, preserva la sua bellezza e il suo fascino nel tempo a detrimento del dipinto.

Disegnare, dipingere un volto fissa in maniera immutata ed eterna un’immagine. Anche in passato, in tempi lontani dall’uso del photoshop, spesso un pittore compiaceva il suo committente migliorandone i lineamenti o addirittura ringiovanendolo. Al contrario, nel caso di un autoritratto, l’artista è spesso impietosamente realistico. Possiamo prendere come esempio Leonardo da Vinci: scienziato, inventore architetto e ingegnere militare, sommo artista italiano dei secoli XV e XVI secolo. Di lui conosciamo il volto, grazie anche al suo noto autoritratto, il “Ritratto di vecchio” che si conserva presso la Biblioteca Reale di Torino. Questo disegno è una sanguigna che lo rappresenta con una barba folta, i capelli lunghi e lo sguardo rivolto verso destra. Il disegno raffigura un uomo di certo eccessivamente invecchiato (ha poco più di sessant’anni), ma che riesce a imprigionare una bellezza interiore: insieme con la capigliatura bianca,  le sue rughe e la sua lunga barba, il ritratto tramanda la sua intelligenza, la sua creatività, il suo essere al di fuori degli schemi.

Ritornando a quello che ho detto all’inizio, ovvero che il Ritratto di Dorian Gray può essere considerato un inno all’estetica e al narcisismo, viene alla mente che quest’ultimo aspetto è un topos, un concetto che ritorna frequentemente nel tempo e nello spazio. Tutti infatti ricordiamo il mito di Narciso.

Ovidio nelle Metamorfosi racconta di questo giovane, Narciso, che aveva molte pretendenti da lui però disprezzate. Un giorno fu colpito da Nemesi, dea della vendetta o meglio della collera e del castigo, quando specchiandosi in una fonte rimase incantato dalla sua bellezza al punto di innamorarsi di sé stesso.

Questo mito viene raffigurato nell’opera omonima di Caravaggio, dipinta verso la fine del sedicesimo secolo e conservata a Roma presso Palazzo Barberini. Prima che s’imponesse il nome del Merisi come autore sulla scia delle prove apportate da Roberto Longhi, erano sorte varie  polemiche in relazione alla paternità dell’opera, in quanto alcuni storici dell’arte avevano evocato i nomi di Orazio Gentileschi, Bartolomeo Manfredi o Giovanni Antonio Galli detto lo Spadarino. Quale che sia la corretta attribuzione, è innegabile la scrupolosa precisione nei dettagli, nelle cose minute, che però viste nel complesso sono fondamentali. Lo sfondo è di un colore nero pece, che mette in risalto la figura, dalla carnagione molto chiara, esaltata dalle maniche a sbuffo, che si riflettono soavemente nell’acqua della fonte.

Narciso, bello e amato sin dalla nascita dalla madre che seppur non dipinta nell’opera appena descritta, riveste un ruolo molto importante nel mito e nella composizione ovidiana. Ci riferiamo a Liriope, madre di Narciso, abbagliata dalla bellezza del figlio al punto di impegnare il suo tempo alla ricerca dell’indovino Tiresia, il quale predice per lui un’eterna e adolescenziale bellezza, ma termina con un’ambigua sentenza: “se non conoscerà sé stesso”.

L’elisir di eterna giovinezza e bellezza per la prole di cui tanto andava orgogliosa”, secondo Ovidio, sarà alla base del mito e determinerà la completezza di due aspetti così opposti tra loro: la vista, Narciso e la voce, Eco, disperata per il rifiuto di lui.

Ecco, quindi, che mentre Narciso è immedesimato nella sua bellezza al prezzo di mancare di uno strumento di comunicazione universale, ovvero la voce, abbiamo Eco, ninfa innamorata, ma rifiutata, che accontentandosi di “spiare” l’amato, purtroppo irraggiungibile, affida le sue pene d’amore al vento che trasporta le sue parole,  e i mesti canti che risuonano tra anti e caverne scelte come suo rifugio.

La ricerca dell’immortalità e della giovinezza  nell’immortalità è un tema caro a molti artisti come è particolarmente ma anche enigmaticamente visibile in Allegoria dell’immortalità di Giulio Romano (1540, Detroit, USA).

Esso cerca di rappresentare, agli occhi del popolo, gli sforzi e l’impegno dell’alchimista che, studiando metalli e la loro composizione eterna, cerca di sintetizzare l’elisir di lunga vita che permette all’uomo comune una vita più lunga degli altri e all’artista o allo scienziato un’immortalità che gli consenta di proseguire i proprio studi o di essere ricordato.

In conclusione, possiamo dire che l’arte può essere vista sotto diversi aspetti, più o meno importanti, come per esempio il desiderio di immortalità e insieme di giovinezza di fattezze o di animo, percepito in modo differente da ogni autore o artista: affidata a un disegno, spiegata con simboli alchemici, magicamente estorta a un dipinto, magistralmente affidata al mito. Qualunque ne sia la percezione, resta indubbio che Oscar Wilde, Leonardo da Vinci e Caravaggio, l’abbiano restituito al loro massimo splendore.

*EsaBac Liceo Bertrand Russell Roma

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