Giuseppe Ungaretti lettore di Jan Vermeer

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di Jacqueline Spaccini

Nel 1990, in un piccolo capoluogo normanno venivano stampate poche centinaia di copie di un libriccino dal titolo inequivocabile: VERMEER. L’autore? Giuseppe Ungaretti, nella prestigiosa traduzione di Philippe Jaccottet[1]

Si trattava di un testo breve, pubblicato da L’Échoppe, un editore parigino che stampava a Caen e che produceva una serie di “testi di artisti”, di poche pagine ma su carta di qualità, nella sofisticatissima collana Envois. Nel 1990, vale a dire vent’anni dopo la scomparsa di Ungaretti. In realtà, si trattava di una riproposta, poiché la traduzione di Jaccottet era apparsa per la prima volta nel 1969 sulle pagine della Nouvelle Revue Française. Il testo originale di Giuseppe Ungaretti è invece del 1967; lo si trova in un volume dei «Classici dell’Arte», Rizzoli editore[2], come prefazione alla monografia dedicata a Jan Vermeer ed è facilmente reperibile sul mercato dell’usato. 

Venendo al testo italiano, il poeta del Porto Sepolto rende da subito omaggio a colui che riscoprì il valore del pittore olandese, vale a dire a Marcel Proust. La letteratura s’intrattiene sulla letteratura: tutti coloro che conoscono l’opera del romanziere francese sanno che costui fa morire (presumibilmente di infarto) uno dei  protagonisti della sua Recherche[3], lo scrittore Bergotte, davanti a «un petit pan de mur jaune»,  una piccola ala di muro giallo, dipinta nella Veduta di Delft[4] vermeeriana.

Ungaretti ribadisce che «la luce di gloria definitiva» investirà il pittore seicentesco proprio grazie a quel passaggio del romanzo. Scrive: «È noto che fino al 1866, fino alla segnalazione fattane da Théophile Thoré chiamato di solito Bürger, pseudonimo con il quale aveva firmato il saggio su Vermeer, l’opera di Vermeer non aveva suscitato molto clamore»[5]. In realtà, l’artista aveva avuto il suo momento di notorietà  in quella che viene chiamata l’âge d’or della pittura olandese, nel XVII secolo. Ma poi era caduto nell’oblio. Sorte che hanno conosciuto peraltro molti grandi artisti, prima di esser riscoperti da un critico d’arte o di tornare nel gusto di un’epoca successiva. Ungaretti tenta di ritracciarne i motivi. Ne cita uno possibile: «C’è chi pretende che fosse cattolico e, in quegli anni, poteva in Olanda non essere sempre facile tirare avanti con tranquillità a chi lo fosse». Ma subito dopo lo esclude. Forse l’oblio fu causato dalla sua «troppo» rispettabile vita, per di più  di buon padre di famiglia? 

Non era di certo un artista maledetto, non era un cortigiano, né un papista. Ungaretti avanza che il suo torto, se così si può definire, risiederebbe nella pittura «insolita» ai suoi tempi e «insolita» nei Paesi Bassi. Eppure, non ci sono insolite tele devozionali nei suoi soggetti[6], peraltro interdette dal calvinismo. Il gusto dell’epoca, infatti, si orienta verso la pittura di genere, il ritratto e soprattutto verso la natura morta. Non più soggetti mitologici, né allegorie, men che mai soggetti religiosi: la pittura olandese del Seicento si preoccupa di rappresentare il quotidiano. Interni, esterni. Le città si fanno ricche, florido è il commercio: la rapida e leggera flotta neerlandese ha annichilito lo strapotere veneziano sul mare. Amsterdam è una città fiorente e borghesi benestanti vogliono una quadreria personalizzata nelle loro agiate magioni. Il lavoro non manca; le committenze (private) prosperano. A ben guardare, i soggetti di Vermeer non sono dissimili da quelli di Pieter de Hooch, di Gerard ter Borch o finanche di Gabriel Metsu

Ungaretti obietta che non sta nel soggetto la sua unicità. Va in cerca di ascendenze, e compara la pittura di Vermeer alla «concretezza del volume corporale» di Piero della Francesca e particolarmente alla Madonna col Bambino detta La Madonna di Senigallia[7] (così come aveva indicato Roberto Longhi in una monografia del 1927): le finestre a lato, oltre una porta, fanno entrare una luce soffusa che illumina di lontano i volti, tutti gemelli, degli angeli, la Madre e il Bambino. V’è posto anche per una natura morta, nel dipinto di Urbino: «ne risulta un ambiente chiuso, d’un raccoglimento al colmo del silenzio», conclude il poeta. 

E chiuse sono anche le stanze in cui si muovono le figure vermeeriane: studi, salette, atelier oppure semplici “tinelli”, che la presenza umana – in genere una donna, un gentiluomo e una coquette, una lattaia o una fantesca – rallegra con la musica, col ricamo o semplicemente con un chiacchiericcio sommesso. Sono, i suoi, interni ingombri di oggetti, siano essi pianoforti o tappeti, tavoli, e tanti quadri appesi alle pareti. Sguardi rivolti allo spettatore ve ne sono, a volte incongrui, intenzionali oppure rubati come in uno scatto fotografico. 

E poi la bizzarria di questi olandesi, i quali per ritrarre realisticamente l’intimità della casa  dipingono stanze in disordine: ramazze lasciate in giro, fogli di carta spiegazzata a terra, ciabatte, sacche di indumenti, rotoli di carte geografiche. Ma anche pesanti tovaglie dal disegno geometrico, più simili a tappeti, a rammentare quelli stesi ai balconi di un Antonello da Messina[8]. E infine le brocche, grandi e bianche, così come la frutta nel piatto insieme a un bicchiere di vino che ha fatto assopire una giovane; tutto nei suoi quadri rammenta l’importanza che assume in quell’epoca la natura morta. Ha scritto Ernst Gombrich: «le pitture di Vermeer sono vere nature morte con esseri umani»[9].  

Son cose che facevano anche i “piccoli maestri  olandesi”, pensa e scrive Ungaretti. Non fosse che Vermeer cerca la luce che lui esalta nel colore, purtroppo spesse volte distrutto dal tempo e da mercanti di bassa lega. «Tanti pittori hanno cercato di fermare la luce»:  il poeta menziona e spiega la luce di Caravaggio, Rembrandt, Poussin, Corot, Cézanne e Seurat. Ma, osserva, eccezion fatta per Seurat, che gli artisti hanno trovato nella luce un «aiuto indispensabile nel trovare altro».  Vermeer, per esempio, ha trovato il colore e  la profondità (era ossessionato dalla camera scura). E l’equilibrio. E il vero. 

Per Ungaretti, vero e natura sono sinonimi. Eppure, proprio l’enorme stima del suo talento nell’odierna società dei consumi ha condotto all’artificiosità massima, al détournement, potremmo dire a un uso improprio delle sue opere nella pubblicità. Si scelgano a mo’ di esempio rappresentativo, ma non unico, due quadri talmente famosi da essere entrati nell’immaginario collettivo: La lattaia[10] e La ragazza con l’orecchino di perla[11]. Nel primo caso, la nerboruta donna di Vermeer ha dato anche il nome a una nota marca francese (oggi Nestlè) del primo yogurt in vasetto di vetro, poi dolce di riso al latte; nel secondo caso, il turbante azzurro di un’enigmatica fanciulla si è trasformato in un asciugamano (Zucchi), avvolto attorno al capo come di solito le donne usano fare, dopo uno shampoo[12]. Sono tecniche di vendita ormai sorpassate, quelle di prendere un quadro così com’è e di aggiungervi il logo pubblicitario di fianco; tecniche che tuttavia hanno furoreggiato negli anni ‘90 del secolo scorso e qua e là ancora oggi riemergono, ma in forma meno smaccatamente imitativa. 

Il poeta dell’Allegria si sofferma sulla storia narrata senza parole della Donna che scrive una lettera[13]. Guarda noi, ma parla all’artista? Questo è un soggetto, la donna che scrive o che legge una lettera, prediletto da tanti pittori; lo stesso Vermeer lo ha ripreso più d’una volta[14]. Che passa nella mente della giovane? Cerca di trovare le parole giuste da destinare forse a chi non c’è, «l’assente persona, invocandola, senza disturbare il silenzio, accrescendolo all’infinito»? Il pensiero corre a un’altra giovane, stavolta italiana, ai tempi risorgimentali, quella fanciulla che su di un letto sfatto guarda malinconicamente il medaglione col volto del fidanzato garibaldino che probabilmente non tornerà più: la lettera è a terra e il titolo del quadro di Gerolamo IndunoTriste presentimento, non lascia adito a ulteriori dubbi. 

Ungaretti non ha ancora finito di parlare della luce e del colore di Vermeer: evoca nuovamente Proust e il quadro preferito di Bergotte: La veduta di Delft. Il poeta non è propriamente un ammiratore del francese: trova che non avesse gusto e che vivesse in un’epoca bruttissima[15] (sia detto per inciso: Proust è considerato ai nostri giorni un uomo tra i più raffinati, un dandy, e la sua epoca è la tanto sognata Belle Époque, nostalgicamente rievocata da Midnight in Paris di Woody Allen[16]).  Ciò detto, agonizzante, lo scrittore-personaggio non fa che ripetere: petit pan de mur jaune avec un auvent, petit pan de mur jaune… che Ungaretti così traduce: «brandello di muro giallo con una tettoia sotto, brandello di muro giallo»… E da lì, prende in rassegna i magnifici gialli di Vermeer, rammaricandosi di non poter attardarsi sull’azzurro o il rosso scarlatto. Poi chiude, abbagliando noi lettori con ventagli di colori vivi, definendo Vermeer «[l]’inventore della pittura più valida d’oggi, (…) tutto qui. Ma mi pare che quel ‘qui’ sia una vastità». 

Prima di Proust, i fratelli Goncourt annotavano nel loro Journal (1861): «un artista maledettamente originale, Vermeer. Si potrebbe dire che La Lattaia è l’ideale cercato da Chardin»[17]. Sedici anni dopo, nel 1877, Vincent Van Gogh, scrive a proposito del suo conterraneo al collega e amico Émile Bernard: «Conosci un pittore di nome Jan Vandermeer (sic)? Ha dipinto una signora olandese, bellissima, incinta. La tavolozza di questo strano artista comprende l’azzurro, il giallo limone, l’azzurro polvere e il grigio perla è in lui caratteristico […]. Gli olandesi non avevano immaginazione ma avevano un gusto straordinario e un senso infallibile della composizione»[18].  


[1] Quest’ultimo, anch’egli poeta – solitario e famosissimo – della Svizzera romanda, è scomparso nel febbraio 2021, alla veneranda età di novantacinque anni. Era amico e traduttore di Ungaretti che non amava tradursi pur essendo perfettamente bilingue.

[2] Centoundici monografie compongono questa collana nata nel 1962, provvista di apparato critico, filologico e iconografico del pittore di volta in volta protagonista della pubblicazione.

[3] Marcel Proust, A la Recherche du Temps perdu, Paris, Bernard Grasset et Gallimard, (7 volumi), 1913-1927.

[4] Jan Vermeer, Veduta di Delft, 1660-1661, L’Aja, Mauritshuis.

[5] Tutti i riferimenti in lingua italiana si riferiscono: Giuseppe Ungaretti, «Prefazione» all’Opera completa di Vermeer, I Classici dell’arte, Milano, Rizzoli, vol. 11, 1967 (I edizione), pp. 5-8.  Il riferimento alla pubblicazione francese si riferisce a: Giuseppe Ungaretti, Vermeer, Paris-Caen, L’Échoppe (coll. Envois), 1990. Traduit de l’italien par Philippe Jaccottet.

[6] Se non in: Cristo in casa di Marta e Maria, 1654-1655, Edimburgo, National Gallery of Scotland.

[7] Piero della Francesca, Madonna col Bambino (detto anche Madonna di Senigallia), 1474,Urbino, Palazzo Ducale.

[8] Si veda, per es., il suo San Sebastiano, 1478-1479, Dresda, Gemäldegalerie.

[9] Ernst Gombrich, La storia dell’arte raccontata da E. H. Gombrich [1950]. Edizione italiana consultata: Torino, Einaudi, Gli Struzzi, 45, 1989, p. 415. 

[10] Jan Vermeer, La lattaia, 1658, Amsterdam, Rijskmuseum. 

[11] Jan Vermeer, La ragazza con l’orecchino di perla (o con turbante), 1665-1667, L’Aja, Mauritshuis. Dal libro di Tracy Chevalier (1999), è stato tratto il film La ragazza con l’orecchino di perla (Peter Webber, 2003, GB). 

[12] Ma anche il rossetto di Chanel, Rouge Allure, aveva colorato le labbra della ragazza di Vermeer.

[13] Ragazza che scrive una lettera, 1665,  Washington, National Gallery of Art.

[14] Ragazza che legge una lettera presso la finestra, 1657-1659, Dresda, Gemäldegalerie; Signora in azzurro che legge una lettera (La lettrice), 1662-1665, Amsterdam, Rijksmuseum; Fantesca e signora che scrive una lettera (La lettera), 1670-1671, Dublino, National Gallery of Ireland; Fantesca e signora con lettera (La lettera d’amore), 1669-1670, Amsterdam, Rijksmuseum

[15] «Proust non era forse un impeccabile uomo di gusto, agli occhi nostri, viveva nei dintorni di Montesquiou [poeta e dandy, celebre il ritratto che di lui fece Giovanni Boldini, n.d.r.], andava matto per i vetri di Gallé, era fautore del liberty fino alla nausea, fino ad esserne ossesso, e riferiva di musica come uno che oggi lapideremmo, Ma ai suoi tempi, la bruttissima belle époque, aveva indubbiamente più gusto di tutti gli altri». 

[16] Woody Allen, Midnight in Paris, film USA, 2011. La pellicola ottenne un immenso successo di critica e di pubblico alla sua uscita in Europa. Negli Stati Uniti ricevette l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale. 

[17] « Un maître diantrement original que Van der Meer. On pourrait dire de sa Laitière, que c’est l’idéal cherché par Chardin ».

[18] Vincent Van Gogh, Lettre à Émile Bernard, 1888 (lettre X). « Ainsi, connais-tu un peintre nommé Vandermeer (sic) qui, par exemple, a peint une dame hollandaise très belle, enceinte. La palette de cet étrange peintre est : jaune citron, gris perle, noir, blanc. Certes, il y a dans ses rares tableaux, à la rigueur, toutes les richesses d’une palette complète ; mais l’arrangement jaune citron, bleu pâle, gris perle, lui est aussi caractéristique […]. Ces hollandais (sic)- là n’avaient guère d’imagination ni de fantaisie, mais énormément de goût et la science d’arrangement ». Extrait de la revue Mercure de France (1893). http://www.van-gogh.fr/lettres-van-gogh-a-emile-bernard-mercure-de-france-page-8.php

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