Petraio, il museo dell’immaginazione di una città

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di Anna Imponente

Ricordo la passiflora oscura che teneva nella mano, vedendola come nessuno vide mai questo fiore, né mai lo vedrà, anche se l’avrà guardato dal crepuscolo del giorno a quello della notte, per una vita intera.

   JORGE LUIS BORGES, Finzioni (1955)

                                                                                                                          

Durante l’imprevedibile pausa nell’età definita dai sociologhi dell’erranza per la grande scommessa sui flussi turistici in crescita nelle città d’arte, e la fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” dei musei, il piacere dell’arte e la neofilia sono stati surrogate dall’artificio di facili visite on line. Più in generale per molti altri aspetti l’appagamento collettivo immediato della accecante comunicazione digitale sullo schermo, rispetto all’esperienza cognitiva profonda vissuta, l’Erlebnis filosofico di Edmund Husserl, affievolisce la dimensione critica e immaginifica personale. Il libro “Petraio” (ed. La nave di Teseo”2021) di Silvio Perrella racconta il lungo vagabondare in città con un’attenzione e una capacità di concentrazione nuove, mosse dalla curiosità appassionata e diretta per il paesaggio urbano. Lo scrittore osserva una Napoli odorosa di mare lungo la verticale e nell’abbraccio curvilineo del golfo con il porto incorniciati dal vulcano dominante. Un giro di isolato diventa fitto di indizi, il perimetro ristretto del quartiere denso di variazioni inattese, come se li guardasse per la prima volta. Percorre il paesaggio vivente nell’arco del giorno e della notte seguendo il messaggio verde di accadimenti irresistibili con il mutare delle stagioni. Ha un modo antico di guardare, gira la testa e muove i piedi aguzzando una vista acrobatica. I muscoli sono ben allenati, attiva le gambe mosso da devozione per i monumenti storici identitari, i Castelli, il Maschio Angioino e Sant’Elmo che si richiamano da lontano tra il giù e il su della città, la Certosa di San Martino, le cupole delle Chiese. Attratto dalla natura mineraria delle forme architettoniche richiamata dallo stesso nome Petraio, il quartiere frequentato, per fare l’expertise della città, indagarla con occhi esperti spingendo la vista fino allo skyline urbano, deve essere presente a se stesso, acquisire una camminata razionale e insieme sentimentale. Si fida solo della profondità del suo cercare inquieto, e sembra che le pagine stesse del libro respirino dell’esperienza compassionevole del corpo, e che i brevi capitoli siano stacchi per riprendere fiato. Aggiunge a commento pause figurate, antichi volumi d’archivio fotografati in bianco e nero da Antonio Biasiucci. Dei vari sistemi di inventariazione manoscritti compaiono gli spessori con tutta la stranezza di cifre, date e lettere arcane. Sono volumi consistenti che emergono come ricordi vecchissimi, testimoni di tesori segreti da decifrare che ancora le città custodiscono. Finanche il disegno a inchiostro dello Scorfano (1909) di Vincenzo Gemito sulla copertina, è traccia della vigorosa fatica del pesce coriaceo che, con pinne e branchie, si fa largo per poi adagiarsi tra le righe del foglio. Sonnacchioso, e trionfante come il popolo napoletano sulle miserie umane.  

Investigando la straordinarietà dell’ordinario Silvio Perrella pratica il virtuosismo dell’immaginazione racchiusa nel palazzo della sua memoria. Scopre nei conglomerati di edifici connessioni sistematiche, percepisce la fisionomia di schemi intricati, attribuisce significati e umori alla loro seriale casualità e complessità senza fine. Il mistero ultimo di tante accumulazioni e distribuzioni spaziali dinamiche è lo stupore dell’esperienza della realtà, di un ordine senza tempo, attitudine che lo accomuna alla creatività contemplativa dell’artista. L’habitat circostante soffre della mancanza e incompletezza di un pensiero visivo che decodifichi e spieghi a turisti consapevoli, l’apparente afasia del panorama urbano. Lo scrittore esercita l’arte della maieutica che gli storici dell’arte applicano nei musei supportando con commenti didattici, il peregrinare dei visitatori tra collezioni di oggetti. Appropriandosi degli spicchi di paesaggio offerti alla vista, ogni cosa rilevante nella sua mutevolezza diventa custode di un animismo che affonda radici nella visionarietà dell’infanzia.  Descrive paesaggi pieni di sorprese, che intercettano lati in ombra e in piena luce per una convivenza civile, sensazioni termiche anche e richiami alle meridiane che segnano il tempo astronomico.

L’ossatura della città è fatta di dimensioni spaziali, murature concatenate a finestre, ponti, concrezioni minerali di tufo, calcare e pomice. Con caratteristiche diverse sono presenti in altri contesti urbani da Matera a Palermo, al pavé ramato di Milano, parterre attraversati da apparizioni fulminee di anonimi passanti, alle pietre di Venezia e dei giardini zen di Kyoto, alle lastre di un cimitero di Tokyo. Su materiali costruttivi sapienti si è stratificato la storia che fa da lieve sfondo sfocato in segno di protesta per l’impossibilità di risolverne i conflitti. Per le culture primitive le pietre erano oggetti di culto, simboli sacri: nel contesto riacquistano espressività formando categorie estetiche di resistenza allo sfaldamento del tempo. Come succede a una lunetta lungo la strada con l’affresco della Madonna e il Bambino, deturpata dall’incuria e in attesa di restauro. L’inventario di scorci pietrosi con la regia di occhi indagatori prestati da un geologo visionario, sfocia nei versi finali delle “rolling stones” liberate dalla funzione di muri, divenute semplici pietre significanti.

In questo colto theatrum mundi Silvio Perrella vede materializzarsi, per assonanze, paesaggi quadri di artisti moderni e contemporanei e fotografi penetrati nel museo della sua psiche. Nella danza di immagini che sbocciano, la strategia visuale è cercare distanze che sfondano in orizzonti e depositano nella mente l’intuizione di infallibili similitudini. E’una “fuga dal museo” per trovare un patrimonio trasparente che lo scrittore seleziona minuziosamente, annota e ne fa un vertiginoso taccuino di narrazione poetica. Gli autori che percorrono la storia dell’arte appaiono in filigrana come compagni di percezione con cui condividere la collezione immaginaria senza pareti in cui ogni opera si accosta all’altra in un dialogo infinito. Un angolo urbano diventa evocativo delle sublimi scatole surrealiste di Joseph Cornell per la casualità di oggetti impensabili assemblati come reliquie, gli scorci dei muridi case in abbandono sono rimati quelli che a fine Settecento, impregnati di quieti umori preromantici già moderni affascinarono il pittore gallese Thomas Jones nel Grand Tour a Napoli. I quadri intrisi da Giorgio Morandi di nobili colori polverosi sono richiamati da una bottiglia abbandonata su un tavolino, la pittura metafisica di Giorgio de Chirico in certe traiettorie pomeridiane deposte delle ombre. Giuseppe De Nittis è evocato per le proverbiali inerpicate sul Vesuvio (1872) sfidando l’incandescenza della lava e la cenere, confine tra l’essere e il nulla, che in cambio rese materiche e contemporanee le sue tavolette documentate al vero. Un cielo magrittiano colto in un’ora imprecisata tra gli alberi e un lampione, si associa in modo sorprendente al celebre tema dell’“Impero delle luci” (1953-54). L’atmosfera di malinconia serale e solitudine degli scorci di vita americana nei dipinti da Edward Hopper può rivelarsi dinanzi a un semaforo acceso, guardando l’interno di una bottega di parrucchieri al lavoro. E il tema della labile linea tra cielo e mare passa dai quadri di un altro siciliano come lui, Piero Guccione, alla capacità di vedere il buio nella notte di Stromboli, un inno al nero rigato da una linea di luce. Una sorprendente ironia a volte graffiante ora malinconica sembra attingere e alimentarsi di spirito indigeno.

Ireneo Funes, il personaggio descritto da Borges in uno dei racconti che compongono ”Finzioni” è un implacabile visionario capace di cogliere impercettibili dettagli formali.  Quanto emerge in superfice di un ordine invisibile è l’auto similarità, il ripetersi di forme che distillano per la vista come nell’arte islamica, l’essenza del ritmo, un disegno ad arabesco in cui ogni cosa è segnale in un reticolo. Il colpo da maestro di Silvio Perrella è aver tracciato con le parole, invece che nello spazio di una piastrella invetriata o nel frontespizio di un libro miniato il gioco enigmistico di relazioni compositive e nessi persi.

Alla metà del Trecento un viaggiatore come Francesco Petrarca che raggiunse Napoli seguendo un itinerario avventuroso considerò “quanto sia raro che avvenga ciò che speriamo. Accade piuttosto che ciò che vorremmo ci disilluda e si realizzi quanto non ci aspettiamo e in ciò invero non c’è nulla di strano: strano sarebbe che accadesse il contrario”. Una considerazione che ancora guida i nostri cammini in città.

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