«Il cardellino», di Donna Tartt (2013). «L’elemento fortuito in grado di cambiare tutto, oppure no.»

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di Irene Musa

Il cardellino. Novecento pagine di romanzo pubblicate in lingua inglese nel 2013 dalla scrittrice americana Donna Tartt. Tradotte in tante altre lingue a partire dall’anno seguente, dopo che il romanzo è stato insignito del prestigioso Premio Pulitzer. Le riprese per il film sono iniziate nel 2018 sotto la direzione di John Crowley con un cast ricco di attori noti nel panorama cinematografico e televisivo. Nel 2019 il film è stato presentato al Toronto International Film Festival e distribuito in Italia alla fine dello stesso anno nelle principali piattaforme streaming.

La vita del tredicenne Theo Decker è stravolta improvvisamente mentre si trova, insieme alla madre, al Metropolitan Museum di New York: un attentato terroristico all’interno delle sale dedicate ai capolavori della pittura olandese segna irrimediabilmente uno spartiacque nella vita dell’adolescente. 

Filo conduttore dell’intero romanzo è il piccolo dipinto realizzato da Carel Fabritius, talentuoso artista olandese e allievo di Rembrandt, che nel 1654 rappresentò su tavola un cardellino, opera attualmente conservata al Mauritshuis dell’Aia.

È proprio questa l’opera preferita dalla madre di Theo, sulla quale i due si soffermano per ammirarne la bellezza, alcuni istanti prima del grande boato che devasta l’edificio, cancellando per sempre opere e vite umane.

Da questo tragico evento, si dipana il dramma psicologico dell’adolescente che, tra vizi, eccessi e disagi, diventa ragazzo: il tutto abilmente reso scorrevole e di piacevole lettura dall’autrice, grazie a continui spunti di riflessione su tematiche fortemente attuali legate al mondo dell’arte. 

Tra queste, sono frequenti le riflessioni di Theo relative alla fragilità e corretta conservazione delle opere, così come il restauro e l’importanza della salvaguardia del patrimonio comune. Di particolare interesse i riferimenti al tema del traffico illecito delle opere, come pure alla circolazione dei falsi, alle innumerevoli opere attualmente scomparse.

«Ne erano accaduti, di disastri, nel corso della storia: Tempesta sul mare di Galilea di Rembrandt, l’unico paesaggio marino che avesse mai dipinto, si diceva fosse stato rovinato a causa di condizioni ambientali non idonee. Il capolavoro di Vermeer, La lettera d’amore, rimosso dal suo telaio dal cameriere di un albergo, si era scrostato e spiegazzato quando era stato infilato sotto un materasso. Povertà, di Picasso, e Paesaggio tahitiano di Gauguin erano rimasti danneggiati dall’acqua dopo essere stati nascosti da qualche zucca vuota in un bagno pubblico. Nelle mie letture ossessive, la storia che mi catturava di più era quella della Natività con i Santi Lorenzo e San Francesco d’Assisi di Caravaggio, rubato dall’oratorio di San Lorenzo e tagliato dalla cornice in modo così maldestro che quando il collezionista che aveva commissionato il furto l’aveva visto era scoppiato a piangere e si era rifiutato di prenderlo».

L’intero romanzo è ricco di citazioni di artisti e opere realmente esistenti, che rendono il romanzo ancora più attuale ed aderente alla realtà: Adriaen Coorte, George Van Der Mijn, Wybrand Hendriks, Fitz Henry Lane, Raphaelle Peale, John Singleton Copley, Egbert van der Poel, solo per citarne alcuni.

«Era una stanza enorme, di color rosa pesca da vecchietta, molto anni Ottanta. Subito varcata la soglia, sulla destra c’erano un divano e delle poltrone – un sacco di ninnoli, cuscini ricamati a mezzopunto, nove o dieci disegni di grandi maestri: la fuga in Egitto, Giacobbe e l’angelo, artisti della cerchia di Rembrandt, perlopiù; ma c’era anche un piccolo disegno a penna e inchiostro marrone di Gesù che lavava i piedi a San Pietro, tratteggiato con tale abilità (la postura affaticata e il drappo sulla schiena di Cristo, la vacua ed elaborata tristezza sul volto di San Pietro) che avrebbe potuto essere opera di Rembrandt stesso».

Nel corso del romanzo si insiste sull’“amore per il bello”, trasmesso al giovane Decker dalla madre, dalla signora Barbour e da Hobie, mercante antiquario che gli insegna il valore degli oggetti del passato, portati al massimo splendore con le giuste competenze ed accorgimenti. Con estrema eleganza la Tartt propone profonde riflessioni sulla caducità della vita partendo dall’osservazione di opere d’arte:

«Bè, gli olandesi hanno inventato il microscopio» disse. «Erano gioiellieri, tornitori di lenti. Ci tenevano ai dettagli, perché c’è un significato anche nelle cose minuscole. Ogni volta che vedi una mosca o un insetto in una natura morta – un petalo sfiorito, la lieve ammaccatura di una mela-, l’artista ti sta inviando un messaggio in codice. Ti sta dicendo che le cose vive non durano… che tutto è effimero. La morte è connaturata alla vita. Per questo si chiamano nature morte. Può essere che all’inizio, dentro tutta questa bellezza, questo rigoglio, tu non riesca a scorgere l’impercettibile traccia di marcescenza. Ma se guardi attentamente… la troverai.»

Paradossalmente, la stessa vita di Fabritius – come quella del giovane Theo – era stata segnata da un tragico avvenimento: nello stesso anno in cui dipinse il cardellino, a Delft una polveriera esplose e gran parte della città fu devastata dalle fiamme. L’artista morì a seguito dell’esplosione e con lui, tante opere nel suo studio andarono distrutte, come riporta la stessa autrice:

«1622-1654. Figlio di un insegnante. All’incirca mezza dozzina le opere attribuibili a lui con certezza. Secondo van Bleiswijck, storico della città di Delft, Fabritius era nel suo studio intento a ritrarre il sacrestano della Oude Kerk quando, alle dieci e mezzo del mattino, il deposito della polvere da sparo era esploso. Il corpo del pittore era stato estratto dalle rovine dai concittadini, «con grande dolore» diceva il libro, e «con notevole sforzo». Quello che mi colpiva in quei brevi resoconti era il ruolo giocato dal caso: tragedie assurde, la mia e la sua, che convergevano verso lo stesso punto invisibile, il big bang, come lo chiamava mio padre, senza sarcasmo né ironia, anzi, col rispetto che si deve a qualcosa che trascende e governa le nostre vite. Avrei potuto interrogarmi per anni sulle coincidenze e le connessioni senza mai venirne a capo: cose che si incastravano e cose che si staccavano, mia madre fuori dal museo nel momento in cui il tempo impazziva e la luce diventava strana; incertezze che si accalcavano intorno ad una vasta luminosità. L’elemento fortuito in grado di cambiare tutto, oppure no.»

L’autrice dosa sapientemente l’introspezione psicologica del protagonista, riflessioni sui valori umani e sull’attualità, creando un autentico capolavoro, da leggere tutto d’un fiato.

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