“Lo scandalo Modigliani” di Ken Follett (1976)

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di Renato Trotta

Lo scandalo Modigliani, considerato il primo vero e proprio romanzo dello scrittore best-seller Ken Follett, è stato pubblicato sotto lo pseudonimo di Zachary Stone nel 1976.

La vicenda s’impernia sulla ricerca – o, come viene definita, caccia al tesoro – di un dipinto perduto dell’artista Amedeo Modigliani, quadro unico nel suo genere per le circostanze in cui è stato creato.

Sulle sue tracce si fionda la giovane storica dell’arte Dee Sleign, che aspira a farne il pezzo forte della sua ricerca di dottorato. Attorno alla notizia della possibile esistenza di questo pezzo unico vorticano le vicende degli altri personaggi del racconto, ognuno coi propri interessi personali in gioco. Il risultato è un romanzo a tratti irrealistico e ingenuo, ma con una trama piacevole che, spesso, induce a riflettere su tematiche assolutamente centrali del mondo dell’arte.

Sebbene il nome dell’artista livornese sia in primo piano ne Lo scandalo Modigliani, il racconto non ruota affatto attorno al pittore. Il narratore sfrutta piuttosto un vuoto biografico nella vita del Maestro (se ne trovano tanti nella storia dell’arte) come pretesto per dare avvio alle vicende. 

Nell’incipit del romanzo, la riflessione sul rapporto tra il pittore e le sostanze stupefacenti come fonte di creatività risulta interessante, specialmente alla luce dell’uso estensivo delle droghe che veniva fatto nell’ambito della controcultura degli anni ’60 e ‘70. 

Le sostanze psicotrope ricoprivano un ruolo importante nel processo creativo degli artisti a cavallo tra XIX e XX secolo, come dimostrato dalla popolarità del Club des Hashischins e dall’impatto che ebbe sul panorama socio-culturale dell’epoca, riflesso attraverso un effetto domino anche su Modigliani. Quest’ultimo, secondo l’immaginazione di Ken Follett, avrebbe dunque dipinto un quadro dalle qualità straordinarie proprio sotto l’effetto di queste sostanze.

Tuttavia ciò che il romanzo vuole esplorare più nel profondo è il mondo dell’arte, con le sue ipocrisie, luci e ombre. Per quanto i personaggi sembrino essere mossi da una passione tutta romantica per la bellezza e la cultura, in realtà viene pesantemente criticato il sistema in cui avviene la compravendita delle opere. Ken Follett non solo mette in luce lo snobismo che guidava le gallerie e le case d’asta più rapaci, ma sfrutta l’occasione del romanzo per fare proposte socialmente utili a vantaggio degli artisti. Una particolare attenzione viene rivolta agli artisti viventi che faticano ad avviare una carriera senza sottostare ai capricci dei mercanti d’arte, dovendo far fronte a spese che impediscono persino di permettersi uno studio in cui lavorare. 

Non si potrebbe parlare di mercato dell’arte senza parlare di falsi artistici, e dell’alta qualità intrinseca nella loro creazione. Follett sembra guardare al lavoro dei falsari sotto una luce condiscendente, interpretando il loro operato come indispensabile per svelare le ipocrisie insite nel sistema dell’arte e implicando quanto gli esperti galleristi si facciano fuorviare dagli stessi meccanismi che loro stessi sfruttano a proprio vantaggio. 

Curiosamente, otto anni dopo la pubblicazione del romanzo, nel 1984, il lavoro di un gruppo di giovani “falsari” livornesi sarebbe stato il pretesto per arricchire il dibattito sulla polemica riguardante la critica artistica e le gallerie, in seguito al ritrovamento nel Fosso Reale delle presunte “teste di Modigliani” ricreate per l’occasione da Pietro Luridiana e gli amici Ghelarducci e Ferrucci.

Lo sguardo di Ken Follett si allarga, nella conclusione del romanzo, ad abbracciare la questione estetica, suggerendo spunti di riflessione: in quale misura l’etica spietata delle gallerie contribuisce a mantenere alta la qualità dell’arte? La domanda resta senza risposta diretta, lasciando al lettore il compito di interiorizzare una propria visione.

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