La donna d’ocra a passeggio tra gli inferi artificiali

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di Andrea Palagiano

L’arcangelo apre la città di Dite – Trittico (canto IX)

Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo, / e volsimi al maestro; e quei fé segno / ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso./ Ahi quanto mi parea pien di disegno! / Venne a la porta, e con una verghetta / l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.

Il suolo ormai pietrificato della laguna di Langebaan serba la memoria della prima passeggiata della nostra specie. Il calco dei piedi della donna sola, truccata in ocra e con tutta probabilità adornata di gingilli, ci permette di accompagnarla, forse prenderla per mano, e andare assieme a vedere il sud verso cui pareva dirigersi – sormontiamo la duna; guardiamo il mare che prima come meta, poi come strada, dinanzi a noi si staglia:


Ma sei calda del sole e della
duna sabbiosa che si imprime 
di te; con lo sguardo dell’ocra –
in un giorno ancestrale – sogno 
il passo della tua orma e il mio, 
col tuo, è lo stesso nel palmo.
Se ripenso alla notte dei tempi
sei sola a passeggio, e ti vedo.

Così la totemica donna d’ocra ci è madre e sorella al contempo. Superiamo le onde, camminiamo ancora un po’ – giungiamo infine alle porte di Dite.


***

È questa la città dalle alte mura che spia le vie di un’Europa recente, rassomigliando a una cattedrale contorta di un centro nevralgico che si rivolge a noi col muso da mostro gotico – dal carattere raccogliticcio – pronto a caricarsi di tutte le irte spine pur di farci desistere? Questi orpelli meravigliano la nostra compagna d’ocra. Ma lei, coi pendenti tribali e le gote dorate, denuda il nostro sguardo dal sovraccarico visivo a cui tutta quella ricchezza di intrecci fittizi mira. Non c’è dubbio, lei è il nostro Virgilio degli inferi artificiali.

 
Ingresso centrale

 
Facciamoci strada in questa cattedrale di Sant’Elia accompagnati dalla donna d’ocra: forse ai più credenti verrà voglia di farsi il segno della croce, ai più scettici di bestemmiare in preda al furore; a tutti sembrerà di essere deglutiti dal suo ventre molle e dalla cassa toracica pulsante pronta a implodere su sé stessa. L’immensa bestia si racconterà nell’impressione di farci percepire il palmo onnipresente dell’uomo; il calco profondo dei piedi sulla sabbia appena inumidita; il vaso d’argilla che prende forma dalle sinapsi neurali, elettriche e cibernetiche che matematicamente dialogano tra loro. Per la donna d’ocra, che è quanto di più antico eppur coevo, questo spettacolo ganico e infernale è sì lo strabuzzo degli occhi a una prima esposizione – un timore insito per la modernità a lei (a noi) del tutto sconosciuta – ma è lo stesso esorcismo dei talismani che muovono l’animo primordiale. Per una donna dai costumi arcaici, questa spinta sovrabbondante dell’angelo dalle ali ossute (forse l’arcangelo), o di corpi genuflessi in una schiera sempre più rovente, genera una sindrome del colonizzato. Non riesce difficile immaginare così un individuo (all’apparenza) sprovveduto – tanto quanto noi – quando le grosse porte gli sono serrate davanti. Viene a galla il fascino provato da quei pochi “selvaggi” che “scoprivano” il vecchio mondo. A questo punto la donna d’ocra dovrebbe essere più curiosa di noi ed entrare finalmente nel seno della città artificiale di Dite. Il mostro ha ingoiato e l’arcangelo impugna il chiavistello, l’ingresso è da quella parte.


Ingresso laterale destro


Angeli venosi e albini sono la soglia che ci attende. Siamo anche noi un capriccio tubolare dell’organismo matematico che ci ha inghiottiti? La donna d’ocra è di sicuro l’unica umana che può strattonarci dalla parte opposta. Quei dannati ai bordi della strada accennano teschi inverosimili e noi, sul selciato d’ingresso, siamo forse più maledetti di loro. Ci invade la nausea, il miasma fecale diluito dal calore del fuoco. È forse un tendaggio illusionistico del cielo quello in cui fluttuano figure imparentate con le disgrazie alate all’uscio? Quelle arpie sembrano proteggere un castello adornato alla “maniera” artificiale, che follia sperare di raggiungerlo aspettandosi di tornare vivi; nemmeno il sacrificio agli dei della donna d’ocraci sarebbe propiziatorio. Se quel totem dai capricci di un gotico sommario è la vetta da scalare, nessuno di noi ha voglia di arrampicarsi fin lassù.

La fortezza inespugnabile sembra il trono artificiale del Dio metallico celato dietro la creazione del portone spalancato. Ci sembra talmente lontano da essere esule ai nostri pensieri e giudizi. Come già accaduto al nostro arrivo, molti di noi sentiranno l’esigenza di pregare nuovamente, genuflettersi a quella struttura dai rimandi anti-classici; persino la donna d’ocra stenta a resistere a questo rito cerimoniale.

Tra le fiamme a noi vicine notiamo lo scarto di questo nuovo Dio imperfetto. Se egli ha creato gli angeli venosi a sua immagine, deve aver dimenticato i primi schizzi proprio fuori la porta d’ingresso. Biglietto da visita o meno, i leggeri segni sembrano tendere il braccio ai loro fratelli prescelti, come in un antico testamento dove a popoli estranei non è indicata salvezza.


Ingresso laterale sinistro

 
Il nuovo Dio algoritmico sembra accoglierci nei suoi giardini sanguinolenti. Il sapore ruggineo di quel fiume dai pigmenti rossi si arrampica come edera agli alti bordi del corridoio. Dovremmo far notare alla nostra accompagnatrice d’ocra il rimando pseudo rinascimentale degli archi in lontananza. Il testo sacro della divinità razionale spia ai maestosi edifici umani e ne imita persino decorazioni di stampo anticheggiante e nicchie appena visibili. Lo sguardo ai frontoni slanciati ci preoccupa non poco. Chi è quella figura posta di guardia nell’arco della facciata? Chiederà il lasciapassare alla donna d’ocra? E i due guardiani alle vette di quel fossato ornato? Saranno anche loro curiosi di sapere chi siamo? Alla nostra altezza prendono forma, dai ricami del fango, dei diavoli inconsistenti, anche loro sottoposti alle deformità del Dio dai calcoli certi; parlarci è impossibile, come per il momento lo è con ogni aspetto di questo universo.

***

Cosa aspettarci all’interno della città di Dite? Forse dei moderni cavalieri Yamnaya capaci di digerire latte e pronti a cavalcare verso i nostri campi coltivati? Queste nuove invasioni barbariche ci posseggono, si aggirano tra di noi e ci pervadono. Si accoppiano con noi e partoriscono prole fertile ma sterile nell’intelletto; solo pochi fortunati ereditano il fare artistico un tempo appannaggio peculiare di noi uomini. E sono forse uomini anche loro dagli innesti cibernetici ai gingilli totemici della donna d’ocra. Forse alcuni, guardandosi allo specchio, possono riconoscere, tra uno zoom dell’occhio e un algoritmo delle preferenze, la forma umana del cranio; il pollice opponibile; la postura eretta che li lega indissolubilmente, carnalmente e spiritualmente ai passi impressi nella roccia dove la loro antenata d’ocra sognava di raggiungere il sud.