La percezione iconica in Senso di Luchino Visconti

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di Jacqueline Spaccini

Nel 1954 Luchino Visconti realizza Senso: il film si ispira all’omonima novella di Camillo Boito di professione architetto, fratello del più noto Arrigo. Scritta nel 1883, la vicenda è ambientata in Veneto, nel 1865, durante i mesi della rivolta italiana contro gli Austriaci, ovvero la Terza Guerra d’Indipendenza. 

Nella novella di Boito, la trentanovenne contessa Livia Serpentieri racconta sotto forma di diario la sua storia d’amore adultero risalente a quasi vent’anni prima. Luchino Visconti resta molto fedele al testo narrativo, discostandosene però a tratti e soprattutto nel finale, contribuendo in questo modo a dare tutt’altro spessore al personaggio femminile. La Livia di Boito ama appassionatamente il suo amante e lo aiuterà a sottrarsi alla guerra, donandogli i suoi gioielli, ma poi, scoperto il tradimento di lui, lo consegnerà alla giustizia austriaca. Nel suo «scartafaccio», così chioserà i suoi ricordi: «Avevo la coscienza nel mio diritto, tranquilla nell’orgoglio di un difficile dovere compiuto». Senza senso di colpa alcuno.

Nella pellicola, due sono i livelli diegetici: uno melodrammatico e l’altro patriottico; ovvero, da una parte la passione di una donna maritata e adulta per un giovane militare austriaco, dall’altra il sentimento risorgimentale antiasburgico dei vari personaggi con allusioni narrative agli eventi storici. Visconti lavora con sceneggiatori e aiuti di vaglio; il film è da ricordare non solo per i suoi interpreti: l’aiuto regista, ad esempio, è Giuseppe Rotunno; Francesco Rosi e Franco Zeffirelli i due giovani assistenti alla regia. 

Alida Valli (Pola, 1921) impersona Livia. Venne scelta fin dal primo momento quale protagonista femminile, non soltanto per la sua bellezza e bravura ma anche per avere le physique du rôle, per quel portamento che le proveniva dall’essere una nobile anche nella vita (il suo vero nome è infatti Alida Maria Laura Altenburger baronessa von Marckenstein und Frauenberg). 

Per il personaggio del giovane Franz Mahler (Visconti lo rese perfettamente asburgico), invece, l’attore richiesto era Marlon Brando. Indisponibile, in sua vece venne assunto Farley Granger (1925), un mingherlino bruno e californiano abbastanza noto negli Stati Uniti, ma del tutto sconosciuto in Italia. Fu scelto dallo scrittore americano Tennessee Williams che collaborò ai dialoghi (quelli sferzanti tra Franz e Livia). Costui, tuttavia, non tenne in alcun conto la descrizione resa da Boito: 

[…] era veramente bellissimo e straordinariamente vigoroso: un misto di Adone e di Alcide. Bianco e roseo, con i capelli biondi ricciuti, il mento privo di barba, le orecchie tanto minute che sembravano quelle di una fanciulla, gli occhi grandi e inquieti di colore celeste: in tutto il volto una espressione ora dolce, ora violenta, ma di una violenza o dolcezza mitigata dai segni di un’ironia continua, quasi crudele. La testa piantata superbamente sul collo robusto; le spalle non erano quadre e massicce, ma scendevano giù con grazia; il corpo muscoloso, stretto nella divisa bianca dell’ufficiale austriaco, s’indovinava tutto, e rammentava le statue romane dei gladiatori. Questo tenente di linea, il quale aveva solo ventiquattro anni…

Nel film importante è la differenza d’età tra i due amanti (nella realtà, Alida Valli aveva solo quattro anni più del suo collega americano). Nella novella, invece, Livia ha 22 anni ed è poco più giovane dell’ufficiale austriaco, Remigio Ruiz. Questo significa che pur restando costui un avido profittatore di donne belle e ricche, non avrà la crudeltà del Mahler viscontiano nei confronti di una donna ancor bella ma non più giovane.

Anche la Livia filmica e quella letteraria differiscono tra loro: quella di Boito è glaciale persino nella sua vendetta: non a caso si chiama Livia, come certe antiche donne romane, come la terza moglie di Augusto, perlomeno così come ce la descrive Tacito, quella Livia Drusilla alla quale la protagonista della novella si sente affine: 

Sono altera di sentirmi affatto diversa dalle altre donne: il mio sguardo non teme nessuno spettacolo; c’è nella mia debolezza una forza audace; somiglio alle Romane antiche, a quelle che giravano il pollice verso terra, a quelle di cui tocca il Parini in una ode… non mi rammento bene, ma so che quando la lessi mi sembrava proprio che il poeta alludesse a me.

Nella sua cieca e ostinata passione, la Livia di Visconti ricorda piuttosto Emma Bovary: alle volte è stolta, altre infantile. Spesso, vuol essere cieca e sorda per non arrendersi all’evidenza e, con la giustezza della ragione, tornare alla banale – seppur agiata – vita coniugale. A differenza dell’eroina flaubertiana non è vittima degli eventi fino in fondo e si vendica, con occhi freddi, dei torti subiti. 

Tuttavia, al di là della maggiore o minore aderenza alla novella, ciò che accomuna di più Visconti a Boito è una convergente visione iconica della storia.

Vi ricorre lo scrittore nel descrivere alcune scene, rivendicando tale procedimento con queste parole: «la natura offre quadri belli e dipinti»; compito dello scrittore è saperli riconoscere «unendo così in una sola gioia la vista del vero e quella dell’arte». In lui si rievocano colori e tele di Tiziano e del Veronese.

In Visconti, l’omaggio alla pittura è più evidente, giacché sotto lo sguardo dello spettatore. Sicché abbiamo ora «calchi» di opere celeberrime ora raffinate allusioni a quadri meno noti al grande pubblico. Questi i pittori: Francesco Hayez, Giovanni Fattori, Telemaco Signorini, Silvestro Lega, Giuseppe Abbati, Anselm Feuerbach, Alfred Stevens e così via. 

In parte il motivo è dovuto all’impronta storicista che il regista ha voluto dare al suo film: nella novella, tutt’al più, i giovani sono frementi di italianismo, dotati di un impeto infernale, ma la storia segue la focalizzazione interna di Livia, improntata alla superficiale bramosia di passionale sensualità, e dunque altro è quel che la interessa: 

Eravamo alla metà dell’aprile ed oramai gli apprestamenti si facevano senza maschera: militari d’ogni sorta ingombravano le vie; marciavano i battaglioni al suono delle bande e dei tamburi; volavano sui loro cavalli gli aiutanti di campo; i vecchi generali, un po’ curvi sulla sella, passavano al trotto seguiti dallo Stato maggiore, baldo, brillante, caracollante. Quei preparativi mi riempivano di paure fantastiche. L’Italia voleva passare a fil di spada tutti quanti gli Austriaci; Garibaldi, con le sue orde di demonii rossi, voleva scannare tutti quelli che gli sarebbero capitati in mano: si presagiva un’ecatombe. Avevo le furie in corpo: da Verona in sei settimane m’erano capitate quattro lettere sole.

Quel che qui conta è che le sono giunte solo quattro lettere da parte del suo amante transfuga. Nella pellicola di Visconti, invece, fin dall’esordio viene evocato lo spirito risorgimentale e le lotte degli insurrezionali antiasburgici, con il cugino della contessa, Roberto Ussoni, devoto alla causa italiana, in primis. E che i riferimenti alla politica riguardassero anche la situazione degli anni Cinquanta, lo provano i numerosi tagli imposti dalla censura. 

Quel che resta, oggi, è un meraviglioso documento di contaminazione tra le arti: narrativa, pittura e cinematografia. Restano anche i bozzetti che Visconti disegnava e dipingeva personalmente, ispirandosi a dipinti del XIX secolo italiano, e che poi chiedeva allo scenografo e al costumista di riprodurre tali e quali. Il motivo è da ricercarsi non soltanto nella raffinatezza del regista, nell’intellettualità dell’operazione, ma soprattutto nell’icasticità che l’elemento iconico conferisce al film (pur sempre inserito in un contesto storico lontano), confidando sull’effetto coinvolgente di un intertesto, magari non coscientemente presente allo spettatore, ma noto ai sensi di una sua involontaria memoria, rigorosamente proustiana.

La novella si chiude sul nuovo amante della cinica contessa, l’avvocatino Gino che per amor suo ha abbandonato la promessa sposa un mese prima delle nozze, con grande soddisfazione di Livia. Il finale del film, invece, circoscrive un muro bianco, contro il quale viene eseguita la fucilazione del disertore Franz Mahler denunciato dalla donna tradita, mentre, come un fantasma vestito di nero, una Livia disperata vaga farneticante per la città, inghiottita dal buio notturno. S’odono sul selciato i versi di Baudelaire: l’Espoir vaincu, pleure, et l’Angoisse atroce, despotique, sur mon crâne incliné plante son drapeau noir.  

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Di seguito, l’elenco di alcuni dei dipinti ispiratori (insieme con alcuni fotogrammi del film di Luchino Visconti)

  • Silvestro LEGA, La visita, 1868, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma
  • Francesco HAYEZ, Il bacio, 1859, Pinacoteca di Brera, Milano
  • Giovanni FATTORI, Il campo italiano alla battaglia di Magenta, 1861-62, Galleria Nazionale di Arte Moderna (Palazzo Pitti), Firenze
  • Telemaco SIGNORINI, La toeletta del mattino, 1898, collezione privata
  • Anselm Feuerbach, Nanna, 1861, Wallraf-Richartz Museum, Colonia  
  • Angelo MORBELLI, Asfissia. 1884, a.  Galleria Civica d’Arte, Torino; b. collezione privata
  • Francesco HAYEZ, I consigli alla vendetta, 1851, Sammlungen des Fürsten von Lichtenstein, Vienna
  • Alfred STEVENS, La douloureuse certitude, 1870, collezione privata
  • Giuseppe ABBATI, Ritratto di signora in grigio, non datato, Galleria d’Arte Moderna (Palazzo Pitti), Firenze 
  • Alessandro LANFREDINI, La fucilazione di Ugo Bassi, 1865, già Museo del Risorgimento, Firenze
  • GOYA, Tres de Mayo, 1814, Museo del Prado, Madrid
  • Eduard MANET, L’exécution de Maximilien (4 versioni), 1867, Museum of Fine Arts, Boston
  • Silvestro LEGA, Ritratto di dama, s.d., s.l.
  • Pieter JANSSENS ELINGA, Veduta di un interno con pittore, dama e cameriera, 1668, Städelsches Kunstinstitut und Städtische Galerie, Francoforte,
  • Samuel van HOOGSTRATEN, Veduta di un corridoio, 1662, Dyrham Park, Dyrham (Inghilterra)

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