Francesco Petrarca e Simone Martini: tra poesia e pittura

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di Alessandra Magostini

Simone Martini incontrò Francesco Petrarca poco dopo il suo arrivo ad Avignone dove era stato chiamato all’inizio dell’anno 1336 per partecipare alla decorazione della nuova residenza papale in Francia. Fu Benedetto XII a decidere di costruire un palazzo fortificato che poi fu ampliato e arricchito dai suoi successori, e a chiamare l’artista più celebre del momento, il pittore senese Simone Martini. Già nel 1312, per seguire il padre notaio, era giunto ad Avignone anche Francesco Petrarca, le cui vicende biografiche, almeno fino al 1337, fecero perno attorno alla città papale: una vita fatta di mansioni al servizio dei Colonna, di severi studi classici e di una discreta attività letteraria. Poco tempo dopo questo incontro, Petrarca dovette commissionare all’amico pittore un ritratto di Laura, come testimoniano due celebri sonetti del Canzoniere (LXXVII – LXXVIII). Se dell’opera non vi è più traccia, le parole del poeta lasciano intuire la bellezza straordinaria del dipinto, che egli avrebbe voluto divenisse reale.

Per mirar Policleto a prova fiso

con gli altri ch’ebber fama di quell’arte

mill’anni, non vedrian la minor parte

de la beltà che m’ave il cor conquiso.

Ma certo il mio Simon fu in paradiso

(onde questa gentil donna si parte),

ivi la vide, et la ritrasse in carte

per far fede qua giú del suo bel viso.

Fin dall’incipit, Petrarca esalta il lavoro del pittore senese, il quale, meglio ancora di Policleto e di altri artisti «ch’ebber fama di quell’arte mill’anni», ritrasse il volto della donna amata, simbolo di ispirazione poetica e divina. I versi del Petrarca non lasciano dubbi sul luogo nel quale Simone Martini eseguì il ritratto: egli lo dipinse «in Paradiso», riuscendo a tradurre «in carte» l’idea di una bellezza che trascende i vincoli dell’umanità.

E non potrebbe essere stato altrimenti, perché:

L’opra fu ben di quelle che nel cielo

si ponno imaginar, non qui tra noi,

ove le membra fanno a l’alma velo.

Cortesia fe’; né la potea far poi

che fu disceso a provar caldo et gielo,

et del mortal sentiron gli occhi suoi[1].

Nel ricordare i due sonetti in questione, Giorgio Vasari nella vita di Simone Martini asseriva che il poeta «ha dato più fama alla povera vita di mastro Simone, che non hanno fatto né faranno mai tutte l’opere sue»[2], rievocando il dibattito di lunga sedimentazione sul rapporto tra pittura e poesia con cui la retorica classica legherà in modo indissolubile la parola e l’immagine. Il topos del confronto tra poesia e arti figurative, sancito in antichità dal celeberrimo detto di Simonide di Ceo (VI -V secolo a. C.) della pittura come ‘poesia silente’ e della poesia come ‘pittura parlante’, sarà restituito dalla felicissima formula oraziana dell’ut pictura poesis, che avrà grande fortuna nella storia della critica artistica – il cosiddetto Paragone tra le arti – e che, a partire dal XV secolo, vedrà impegnate voci eminenti, da Leon Battista Alberti a Leonardo da Vinci, da Benedetto Varchi a Pietro Aretino.

Tuttavia è a partire proprio dalle parole di Petrarca che, alla metà del Trecento, si attribuisce un valore del tutto positivo alla pittura così da ritenerla pienamente parte delle arti liberali e da conferirle preminenza, attribuendole maggior potere mimetico della poesia. Fu la prima volta, secondo gli studiosi, che un intellettuale riconosce all’immagine una potenza dirompente sia nell’artista che la produce, che nello spettatore che l’ammira.

Nel sonetto successivo[3], infatti, si ribadisce questo legame tra le due arti, sottolineando come il pittore abbia dato visibilità all’idea del poeta, al punto da far parlare il ritratto, con cui egli improvvisa un dialogo immaginario:

Quando giunse a Simon l’alto concetto

ch’a mio nome gli pose in man lo stile,

s’avesse dato a l’opera gentile

colla figura voce ed intellecto,

di sospir’ molti mi sgombrava il petto,

che ciò ch’altri à piú caro, a me fan vile:

però che ’n vista ella si mostra humile

promettendomi pace ne l’aspetto.

Ma poi ch’i’ vengo a ragionar co llei,

benignamente assai par che m’ascolte,

se risponder savesse a’ detti miei.

Negli ultimi versi del sonetto, Petrarca fa un puntuale riferimento al mito di Pigmalione narrato da Ovidio nelle sue Metamorfosi. Secondo questo racconto, lo scultore cipriota si innamorò così profondamente della sua creazione, da chiedere ad Afrodite di tramutarla in una donna in carne e ossa.

Pigmalïon, quanto lodar ti dêi

de l’imagine tua, se mille volte

n’avesti quel ch’i’ sol una vorrei.

È la profonda conoscenza della cultura classica che permette a Petrarca di recuperare il genere antichissimo dell’ékphrasis, con cui i poeti greci, attraverso il ricorso ad espedienti letterari, creavano una rappresentazione vivida dell’immagine, che sembrava prendere vita, appunto, sotto gli occhi del lettore. Una cultura, quella di Petrarca, alimentata da un’incessante ricerca di testi antichi e manoscritti confluiti nella sua biblioteca, che fu tra le più ricche dei suoi tempi e che contribuì enormemente, grazie alle numerose postille presenti ai margini dei suoi scritti, alla diffusione della cultura umanistica.

Altra importante testimonianza del rapporto di amicizia tra il poeta aretino e il pittore senese si trova proprio in uno di quei preziosi testi manoscritti appartenuti a Petrarca: è il cosiddetto Virgilio Ambrosiano[4], acquisito dalla Biblioteca Ambrosiana per volontà del Cardinale Federico Borromeo nel 1609. Il codice manoscritto trasmette principalmente le maggiori opere di Virgilio accompagnate dall’Achilleide di Stazio, da carmi di Orazio e dall’esegesi di Servio, e accoglie un numero impressionante di postille che Petrarca inserì tra il 1338 e la sua morte, tantoché la leggenda vuole che egli spirò reclinando il capo proprio su quelle pergamene. L’opera, che il poeta ritrovò dodici anni dopo essergli stata rubata, deve la sua fama soprattutto all’allegoria virgiliana, ovvero alla miniatura che Simone Martini realizzò nell’anticamera del volume.

La pagina miniata (Fig. 1), certamente ideata da Petrarca, mostra il commentatore latino Servio che, scostando una tenda leggerissima, svela il poeta Virgilio, togato e coronato d’alloro. Sullo sfondo di un paesaggio di campagna, il sommo poeta è raffigurato sdraiato, accanto a tre alberi che alludono alle sue opere maggiori, con un libro aperto sulle ginocchia e una penna in mano, mentre volge lo sguardo al cielo da cui sembra cogliere l’ispirazione poetica. Servio indica la figura a un soldato al suo fianco – probabile riferimento ad Enea – mentre in basso assistono alla scena un pastore, intento a mungere le pecore e un contadino nell’atto di potare le viti, chiare allusioni ai temi pastorali cantati nelle Georgiche e nelle Bucoliche.

I due cartigli che separano la scena superiore da quella inferiore, contengono versi che si riferiscono all’opera degli autori latini, mentre in basso, in una nota, si legge:

Mantua Virgilium, qui talia carmine finxit / Sena tulit Symonem, digito qui talia pinxit

(Mantova generò Virgilio, che creò simili cose con la poesia; Siena Simone che le dipinse con la sua mano)

Nel paragonare le miniature di Simone Martini con l’opera di Virgilio, torna dunque centrale il rapporto tra poesia e pittura. Nei due sonetti che Petrarca dedicò al ritratto di Laura eseguito dal pittore senese, infatti, non si può non riconoscere l’essenziale contributo filosofico e linguistico che egli diede alla nascita di una teoria artistica, i cui esiti migliori furono raggiunti solo nei secoli successivi.


[1] Francesco Petrarca, Canzoniere, LXXVII.

[2] Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori [1550 e 1568], a cura di R. Bettarini, commento secolare a cura di P. Barocchi, Firenze, 1966-87, IV, p. 170.


[3] Francesco Petrarca, Canzoniere, LXXVIII.

[4] Ms. S.P. 10/27, Biblioteca Ambrosiana, Milano.


Fig. 1 Virgilio Ambrosiano, Biblioteca Ambrosiana, Milano Ms. S.P. 10/27.

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