«Napoleone che valica il San Bernardo» di Jacques-Louis David e «Le Ultime Lettere di Jacopo Ortis»

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di Niccolò D’Andrea[1]

Attraverso la tragica vicenda del personaggio da lui inventato, nel romanzo Le Ultime Lettere di Jacopo Ortis (1802) Ugo Foscolo non fece altro che raccontare la propria delusione amorosa, dovuta all’impossibilità di unirsi in matrimonio con la nobile Isabella Roncioni (nell’opera corrisponde a Teresa), ma anche la propria delusione politica, di fronte alla cessione della Repubblica di Venezia all’Austria da parte di Napoleone. Leggendo questo libro dietro suggerimento del prof Occhpinti, l’immagine più potente a cui non ho fatto a meno di pensare è il ritratto di “Napoleone che valica il San Bernardo” risalente all’inizio del 1800, opera di Jacques-Louis David. 

In questo quadro viene rappresentato, a olio su tela, Napoleone, a cavallo, in procinto di oltrepassare il San Bernardo, sulle Alpi Pennine, per dare inizio alla seconda campagna d’Italia. Sono state dipinte cinque diverse versioni dell’opera, due di queste sono conservate presso la reggia di Versailles, una si trova a Berlino, mentre le ultime due sono collocate in Francia e a Vienna. Il quadro venne commissionato dal re di Spagna, Carlo IV, che desiderava collocare l’opera nel salone dei Grandi Capitani del Palazzo Reale di Madrid, per ingraziarsi l’ambizioso Primo Console. Napoleone si rifiutò di posare per David, ma gli fornì gli indumenti che aveva indossato nella battaglia di Marengo, perché il pittore potesse ritrarli fedelmente. Tutte le versioni hanno più o meno le stesse dimensioni, che si aggirano intorno ai 2,5 metri di altezza e ai 2 metri di lunghezza. Bonaparte si mostra a cavallo, avvolto da un mantello giallo-arancio, in uniforme da generale, col viso dall’espressione sicura e determinata. La mano destra indica la cima della montagna, al di là della quale è l’Italia, terra di conquista; la mano sinistra, invece, è aggrappata alle redini del suo destriero. I suoi occhi sicuri guardano direttamente l’osservatore e il posizionamento sul cavallo serve a nascondere un grande difetto del generale: la bassa statura. Indossa un mantello e un cappello bicorno ornato d’oro e dei guanti ricamati, tiene in mano le briglie. È armato con una sciabola in stile mamelucco, in ricordo delle milizie turche. Sul giogo si può notare la firma di David, affiancata alla data di realizzazione dell’opera. Il cavallo, dal colore bianco, si impenna sulle zampe posteriori, la  criniera è visibilmente mossa dal vento, come i capelli di Napoleone, il volto del destriero appare  nervoso e spaventato, in conflitto con la piena risolutezza del generale francese. I colori tendono  generalmente al grigio sullo sfondo, come possiamo notare nel cielo, e sono in contrasto con i toni  chiari del generale e il suo palafreno. Lo spazio assume una profondità tanto imponente quanto la  figura di Napoleone, che, grazie al punto di vista basso dell’osservatore, assomiglia quasi a un  monumento. In secondo piano si trovano dei soldati i quali, accompagnati dall’artiglieria, si impegnano a scalare la montagna, ed appaiono affaticati, deboli, troppo umanamente fragili e assai  più minuti di Napoleone. Sulle rocce in basso a sinistra sono inscritti i nomi di Annibale, Bonaparte  e Carlo Magno, i personaggi storici che riuscirono a valicare le Alpi. Certamente David volle porsi n competizione con opere come la “Visione di Costantino” di Bernini e il “Ritratto  Equestre di Luigi XIV” dello stesso Bernini; ma è inevitabile pensare alla “Cacciata di Eliodoro dal tempio” di Raffaello: certo, è diverso il colore del mantello di Napoleone, si passa dal rosso vermiglio al rosso arancio, passando per il giallo-arancio. Tra l’altro Napoleone valicò le Alpi in groppa a una mula, però, volendo apparire eroico e coraggioso, preferì essere ritratto a cavallo e perciò chiese di essere  raffigurato su uno dei suoi due cavalli. 

Fra la miriade di quadri legati alla situazione politica italiana di fine Settecento, ho individuato questo capolavoro di David per ricollegarlo al conflittuale rapporto del giovane Ortis con il generale  francese stesso. Le afflizioni dello studente veneziano, dopo tutto, nascono dalla discesa in Italia di  Bonaparte, che conclude la sua spedizione con il trattato di Campoformio, una pugnalata nel cuore  di tutti gli italiani. Ortis si ritrova improvvisamente in Austria e non può che considerare Napoleone  come l’artefice della “morte” della sua amata patria, tanto che il condottiero di Ajaccio può  addirittura essere considerato l’antagonista del romanzo.

«Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia. Il mio nome è nella lista di proscrizione, lo so: ma vuoi tu ch’io per salvarmi da chi m’opprime mi commetta a chi mi ha tradito?»


[1] Liceo classico E.Q. Visconti, Roma.

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