Il cinema nella pittura di Almodóvar. Studio di due casi: “Abbracci spezzati” e “Dolor y gloria”

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di Jacqueline Spaccini

Nel 2009, il regista spagnolo Pedro Almodóvar gira Gli abbracci spezzati (Los Abrazos rotos), pellicola che ottiene un discreto successo in ambito internazionale. Dieci anni dopo, è la volta di Dolor y gloria (in Italia si è scelto di mantenere il titolo originale). Tuttavia, a causa della sopravvenuta pandemia che da tempo sconvolge la nostra società, dopo il passaggio d’obbligo al Festival di Cannes 2019, il film è stato per pochissimo tempo distribuito nelle sale cinematografiche[1]. Successo sì, ma di critica.

Due pellicole diversissime tra loro, benché accomunate da un protagonista diegetico comune, un sempre più autobiografico regista[2]. Nel primo caso, il ruolo è impersonato da Luís Homar[3] ; nel secondo dal ben più noto Antonio Banderas. A far loro compagnia, in entrambi i film, l’attrice-feticcio, Penelope Cruz. In realtà, quel che qui interessa è un altro fil rouge, vale a dire la presenza – nonché la valenza – dell’elemento iconico nel cinema almodovariano, in un gioco di rimandi intertestuali.

C’è da chiedersi: l’intertestualità può essere inintenzionale? Sì.

Non solo può esserlo, ma addirittura il lettore/lo spettatore può scovare un rimando lontano anni luce dalle intenzioni (dal mondo onirico, culturale e immaginifico) dell’autore/scrittore/regista. La critica ha anche questo ruolo. E il pubblico ha anche questa prerogativa: appropriarsi, fare suo quel che in origine non gli apparteneva, quel che non era a esso destinato. Si potrebbe definire come una sorta di reinterpretazione metabolizzata.

Ci sono cose, tuttavia, che non possono (né vogliono) essere inintenzionali: le citazioni, gli omaggi, i prestiti. In ordine cronologico, cominciamo dal primo film succitato: Gli abbracci spezzati. La trama è intricatissima; vari colpi di scena si susseguono nel corso del film: il personaggio maschile, Mateo Blanco (Lluís Homar), è cieco a causa di un incidente automobilistico in cui ha perso l’amore della sua vita, Magdalena, detta Lena (Penelope Cruz). È regista. In seguito alla sua menomazione, ha deciso di prendere un altro nome, Harry Caine, in realtà uno pseudonimo assunto quando – braccato – s’era dato alla fuga con la sua amata. Negli anni, per Mateo, il nome fittizio è divenuto un eteronimo – ecco che s’intravvede l’ombra di Fernando Pessoa[4] –, non un nome d’arte, non un nom de plume, bensì proprio un altro nome che porta su di sé come un abito cucito su misura.

Introducendo un terzo personaggio (il giovane Diego), Almodóvar troverà l’escamotage per far raccontare al cieco la sua storia d’amore. Come dice Italo Calvino, senza interlocutore non c’è dialogo, né storia[5]. I suoi ricordi narrati nel corso del film riprodurranno situazioni e immagini in grado di evocare nello sguardo dello spettatore suggestioni pittoriche più o meno esplicit(at)e. Come in un gioco diegetico, si tratterà dunque di riconoscere gli intertesti, a volte trepidi omaggi; in ogni caso, si tratterà di contaminazione tra arti: cinema, pittura, letteratura.

Eteronimi si è detto; somiglianze non solo di nomi, ma anche di volti. Innanzitutto, tra l’attore protagonista, Lluís Homar, e lo scrittore argentino Jorge Borges, tra Penelope Cruz e la star Audrey Hepburn[6].

È tipico in Almodovar: plasma la sua artista preferita come le dive amate di sempre; in Volver (Tornare, 2006), la Cruz era una versione modernizzata di Sophia Loren, la pizzaiola dell’Oro di Napoli (1954), con qualcosa anche di Claudia Cardinale e di Anna Magnani, le grandi icone del regista spagnolo. In Abbracci spezzati, invece, Magdalena/Cruz si trasforma via via in una delle Marilyn di Andy Warhol. Diventa bionda ed eterea, con una parrucca scombinata e volutamente falsissima, come quella di una Drag Queen, perché non è l’adesione perfetta al modello che dà valore al progetto del regista, bensì la ripresa dei cliché dell’artista statunitense. Penelope Cruz è dunque la copia delle copie di Marilyn giacché, come si conviene nell’epoca postmoderna in cui siamo tuttora immersi, nulla si crea dal nulla, tutto si costruisce sul già esistente. Per questo la parrucca della Monroe almodovariana è scadente: per creare un effet d’apocryphe, ovvero la più autentica inautenticità.

Luoghi e quadri. Nel film ci sono quadri appesi alle pareti, quadri che esistono, ma che magari sono ingrandimenti esagerati di altri quadri. È un regista colto, Pedro Almodóvar, ci sarebbe per esempio molto da scrivere sulla mise en abyme presente nei suoi film[7].  Diamo solo qualche esempio e cerchiamo di capire perché proprio quelle tele sono state scelte e con quale intento.

Nella casa di Ernesto Martel, l’amante di Magdalena, quello stesso  da cui lei proverà invano a fuggire insieme con Mateo/Harry, tutto è eccessivo, opulento: le scale magniloquenti e inquietanti[8] nascondono un nudo matissiano[9]. È d’altronde la casa di un finanziere dal passato non troppo limpido: uno per cui la ricchezza va ostentata. Sopra a un sofà firmato Cassina (il design è diventato negli anni sempre più importante nei film di Almodóvar), spicca una stampa serigrafica arcinota: la mela rossa di Ezio Mari.

E ancora: durante il coito, gli amanti si prendono sotto alle lenzuola, sicché non ci sono dubbi, sono proprio loro, gli ispiratori, Gli amanti (Les Amants, 1928) di René Magritte. E dopo il rapporto, l’uomo giace nel letto, esausto, in una posa che richiama i calchi in gesso dei morti pompeiani. Non desti dubbio l’analogia: lo stesso titolo del film rimanda a Viaggio in Italia (1954) di Roberto Rossellini, laddove i protagonisti, una coppia americana, di passaggio a Pompei, assiste al procedimento di estrazione delle antichissime vittime imprigionate sottoterra. D’altronde, all’interno del film, i due protagonisti guardano assieme proprio questo film, nella casa di Lanzarote in cui soggiornano durante il mese di fuga da Martel.

Decisamente, Almodóvar è un citazionista. In una delle innumerevoli stanze della villa di Martel, fa trasparire la sproporzione della passione dell’uomo per Lena in un dipinto quale Je t’aime n. 2 (1955)  del pittore espressionista americano Robert Motherwell. In un altro fotogramma del film, una natura morta seicentesca occupa tutto lo spazio alle spalle degli attori; la tela di tre metri per cinque, è in realtà l’ingrandimento della natura morta di un oscuro Juan de Espinosa[10], conservata al Prado. L’originale misura in realtà 21×36 cm.  In un’altra stanza, un revolver di ispirazione chiaramente pop (Wharol, Gun, 1981 ) anticipa il finale tragico di questa relazione[11].  E infatti l’arte è un artificio che Almodóvar utilizza spesso come una didascalia a evidenziare, a sottolineare, la situazione in corso oppure addirittura come elemento narrativo prolettico.

Altro esempio dell’omaggio (o prestito?) di un citazionista colto che ama costruire ipertesti con ipotesti che si collegano ad altri ipotesti? È rintracciabile nella scena notturna che si svolge nel ristorante in cui Mateo, la sua produttrice Judit e il giovane Diego cenano. Le immagini rimandano a un Edward Hopper popolarissimo, quello di Nighthawks (I nottambuli, 1942). Tutto è pressoché identico: il locale tutto vetri è pervaso di un verde che vira al blu per effetto delle luci di atmosfera; non solo: del pittore statunitense gli attori hanno anche quel modo «abbandonato», disperatamente ma pacatamente rassegnato, dei suoi personaggi seduti a un tavolo[12].

Peraltro, Almodóvar aveva evocato i fari di Hopper (inquadratura e colori) già ne La legge del desiderio (1987). Prima di lui, lo stesso aveva fatto un regista molto ammirato e citato: Alfred Hitchcock[13] di cui lo spagnolo – sempre in Abbracci spezzati – cita la bella scala, quella con il quadro imponente seminascosto, di Notorius (1946)[14].

Almodóvar non cita più altri registi, altri film. Non omaggia. In un’intervista, ebbe a dire che non si deve imitare qualcun altro per pura ammirazione: «la sola ragione valida [di farlo] è se nel film di un altro si trova la soluzione concreta a un proprio problema (…). Il primo approccio (quello dell’omaggio) è un prestito, mentre il secondo è il furto (…). Se è necessario, non bisogna esitare. Lo fanno tutti. (…) Personalmente, la mia più grande fonte di ispirazione, è probabilmente Hitchcock»[15].

E dunque, un decennio più tardi, Dolor y gloria è una pellicola ancor più autoreferenziale. Questa volta lo sguardo del regista affonda definitivamente nella sua infanzia e torna di tanto in tanto in un presente solitario coi suoi ricorrenti malanni. È tempo di bilanci. Il protagonista, Salvador Mallo (interpretato da Antonio Banderas), è un regista, stavolta sfacciatamente doppelgänger di Pedro Almodóvar, tant’è che l’appartamento ricostruito sul set è la replica del suo appartamento madrileno e che i quadri e i poster[16] appesi alle pareti sono effettivamente i suoi; alcuni addirittura suoi come autore e non già come mero possessore.

Almodóvar, infatti, da qualche anno lavora in collaborazione con un giornalista-artista, Jorge Galindo. I due stendono colori (spesso in forma di fiore) su fotografie gigantesche o su vecchi cartelloni pubblicitari e nel 2019 è stata allestita a Madrid la loro mostra congiunta, FLORES alla Tabacalera[17]. Questo elemento aiuta a comprendere due cose: da una parte la spasmodica volontà di autorappresentazione (e anche dell’altrui riconoscimento) che ha il regista in questo film; dall’altra, una divorante passione di Almodóvar per il design e la pittura. Se il mondo all’interno di sé è triste e buio, tutto intorno si fa colorato e bello. D’altronde lo scenografo dei suoi film è da sempre Antxon Gómez[18], incaricato di restituire un ambiente casalingo che abbia queste caratteristiche: colori esplosivi alle pareti, oggetti dal design ultramoderno e firmato, quadri d’autore alle pareti in ogni stanza. Una rappresentazione borghese, ma eccentrica,  con ambienti assolutamente reali ma di certo poco vissuti nella loro quotidianità.

Si pensi al comò con farfalle e ai vari vasi a firma Fornasetti, ai tavoli della celebre Charlotte Perriand per Cassina, a tutti i  tessili firmati Missoni, alla lampada Gae Aulenti, le poltrone Red and Blue e tantissimi oggetti di Ettore Sottsass.

In questo film, tuttavia, la funzione dei dipinti appesa ai muri non è didascalica, non cita né annuncia. In questo film, i quadri rappresentano momenti della vita di Almodóvar, i suoi gusti, gli artisti (per lo più spagnoli) che ama e se ne troviamo poi uno che rappresenti un fiore possiamo esser certi che ne è l’autore. Il dipinto che sta alla base del film, quella del bimbo intento a leggere su una sedia e con una maglietta rossa, è proprio di Galindo[19], su commissione di Almodóvar: evidente è il richiamo a Banksy, (il quasi) anonimo writer britannico.

Ogni occasione è buona per punteggiare i suoi film di cultura: che si tratti di una raccolta di poesie di Tonino Guerra[20]o della raffinata eleganza di Sigfrido Martín Begué, sorta di de Lempicka al maschile.  Dappertutto ritroviamo i dipinti di Guillermo Perez Villalta, che per affollamento e colori pastello ricorda il Bosch del Giardino delle Delizie (1503) ma che per certe fisionomie cartoonesche rammenta qualcosa che sta tra i Balloon dog (1994-2000) di Jeff Koons e i fumetti italici (Cocco Bill & Co.) di Benito Jacovitti.

Il regista ama gli artisti spagnoli contemporanei, protagonisti come lui, della Movida madrilena, un movimento artistico post-franchista degli anni ’70-80, che si era prefissato di modificare la cultura attraverso tutte le arti (principalmente la musica, la pittura, la letteratura e il fumetto) e che vedeva proprio in Pedro Almodóvar l’alfiere della liberazione dei costumi, il sesso libero, l’uso di haschisch, la gioia di vivere in maniera esuberante e anticonvenzionale. Oggi, nell’era della globalizzazione, il termine movida ha assunto in Italia una nuova connotazione, banale e disimpegnata, e sta a indicare per la gioventù locale un tipo di animazione notturna per le strade del centro cittadino.

Ma Almodóvar non ha smesso di credere nella sua opera di influenza artistica, «appendendo» nei suoi film i quadri degli artisti di cui si è fatto ormai consapevole collezionista.

Non è soltanto citazione, né omaggio prestito o furto; non è più didattica, è rivoluzione culturale di seta d’agave, la sua.

[1] Il film è naturalmente visionabile nella versione DVD e in streaming.

[2] Ne Gli abbracci spezzati l’elemento autobiografico va spostato nel personaggio di Ernesto jr/Ray, il ragazzo poi uomo, figlio del potente Ernesto sr. – che per non dispiacere al padre si è sposato due volte ma è gay. Ernesto vuole a tutti i costi fare il regista, riprende tutto e tutti con la sua telecamera (e al quale tutti dicono “Togliti di mezzo… Sei pesante”). Antipatico allo spettatore per 3/4 del film, quell’Ernesto è il giovane Pedro, neanche tanto nascostamente.

[3] Nella vita di tutti i giorni Luís Homar è un direttore teatrale, noto al pubblico europeo come attore a partire dal 2004, proprio grazie ad Almodovar. Questa volta il regista lo sceglie per via della sua forte somiglianza con l’argentino Jorge Borges, il poeta cieco.

[4] Cfr. Fernando Pessoa, Teoria dell’eteronimia,  Quodlibet, 2020.

[5] Come dice il suo narratore di Se una notte d’inverno un viaggiatore (Torino, Einaudi, 1979, p. 142), a proposito dell’introduzione di un personaggio femminile (la lettrice Ludmilla, n.d.r.): «la terza persona [è] necessaria perché il romanzo sia un romanzo», vale a dire occorre un interlocutore affinché un romanzo abbia un avvio di storia.

[6] In una scena, Penelope/Magdalena porta alle labbra una tazza di tè nello stesso modo e con la stessa acconciatura dell’attrice statunitense com’è ritratta sul set di un film.

[7] C’è una scena in cui Mateo, col pretesto di indicare al giovane Diego dove si trova un DVD che vorrebbe vedere insieme con lui (Ascensore per il patibolo/Ascenseur pour l’échafaud – 1958, con Jeanne Moreau), menziona tutti quelli che gli stanno accanto: Il Settimo sigillo di Ingmar Bergman, Otto e mezzo di Federico Fellini e così via, capisaldi della cultura cinematografica del regista madrileno.

[8] Ricordano l’importanza che hanno le scale nei film di Hitchcock.

[9] Si tratta di Nu bleu (Souvenir de Biskra), 1907.

[10] Pittore spagnolo (documentato tra il 1628 e il 1659). «La complessa identificazione di questo artista è stata fatta dalla presenza di altri suoi pittori contemporanei omonimi. Soprattutto è stato difficile dissociarlo da un Juan Bautista de Espinosa che firmò una magnifica natura morta con pezzi d’argento nel 1624. Questa, però, era morta nel 1641, quando l’artista a cui ci riferiamo aveva almeno vent’anni di vita. La sua biografia è praticamente sconosciuta ed è solo grazie ad alcuni brevi riferimenti d’archivio che possiamo trarre alcuni dati cronologici della sua esistenza, documentati tra il 1628 e il 1659. Le sue opere si distinguono come virtuoso nella tecnica di cattura delle immagini attraverso velature leggere e che risulta palmarmente delicato nella rappresentazione della frutta […]. Questa maestria lo fa risaltare tra gli artisti dediti al genere del suo tempo. Sono sei le nature morte di Espinosa appartenenti al Museo del Prado, tre provengono dalle collezioni reali e altre tre facevano parte della collezione Naseiro ed erano entrate al Prado nel 2006» (traduzione dal sito spagnolo del museo del Prado, n.d.r.).

[11] Il ricorso ai quadri e al colore in essi contenuti non si limita a questo film di certo: un grande quadro a campeggiare nel salotto, lo ritroviamo nell’ultimo film The human voice (2020), laddove un’altra coppia, Ettore e Andromaca, s’impone con il celeberrimo De Chirico dei muti manichini.

[12] Come in Automat (1927) o in Soir bleu (1914).

[13] Cfr. a questo proposito, Dominique Païni – Guy Cogeval (a cura di), Hitchcock et l’art. Coïncidences fatales. Paris, Mazzotta (Centre Pompidou), 2000.

[14] Altro regista amato e citato (in Abbracci spezzati) è François Truffaut. Si veda la scena della camminata di Penelope Cruz che ricalca quella dell’ouverture su Fanny Ardant in Finalmente domenica! (Vivement dimanche !, 1983)

[15] Laurent, Tirard, Leçons de cinéma, Paris, Nouveau Monde Éditions, 2009, p. 35 [La seule raison valable c’est si l’on trouve dans le film d’autre la solution concrète d’un problème à soi (…). La première approche (celle de l’hommage) est un emprunt, alors que la seconde c’est du vol. (…) S’il est nécessaire, il ne faut pas hésiter. Tous les auteurs le font. (…) Personnellement, ma plus grande source d’inspiration, c’est sans doute Hitchcock].

[16] Tra i vari poster, c’è quello di Doña Berta che è una novella melodrammatica di Leopoldo Alas “Clarin”. C’è anche MADRES PARALELAS, manifesto con i dadi di un film che Almodóvar girerà solo durante la pandemia Covid-19 (in preparazione mentre scriviamo queste righe).

[17] La Tabacalera, un ex tabacchificio, è un centro di cultura promosso dal Ministero spagnolo che accoglie  mostre e promuove l’arte contemporanea, visuale e fotografica.

[18] Tutto su mia madre, La mala educación, Parla con lei Carne trémula – tra gli altri.

[19] Galindo nel film Dolor y gloria è anche il nome del medico di Salvador/Banderas.

[20] Judit Garcia, la produttrice di Harry, lavora con gli americani su un libro di Tonino Guerra. Si tratta di un omaggio personale. Come affermerà lo stesso regista alla morte dello sceneggiatore romagnolo: Hace cuatro años Tonino Guerra me envió una antologí a de sus poemas, la recibí tan emocionado que no pude por menos que sacar el ejemplar en la película que immediatamente rodaría, “Los abrazos rotos. Pedro Almodovar, Las palabras de Tonino Guerra, Facebook cit. Homenaje de Pedro Almodovar a Tonino Guerra, eldeseo.es  [Quattro anni fa Tonino Guerra mi spedì un’antologia con i  suoi versi, la ricevetti così emozionato che non potei far a meno di mettere il libro nel film che stavo girando, Gli Abbracci spezzati]

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