di Lucrezia Lucchetti
Questo libro di semplice narrativa si è rivelato contenere numerosi e interessanti spunti riguardo ad un concetto di arte molto interiore e personale, un’arte legata a doppio filo a quelli che possono essere i sentimenti più intimi, le sensibilità più nascoste e le ossessioni più radicate. Il quadro della Tempesta di Giorgione del 1502/03 è l’assoluto protagonista di tale libro. Viaggia su binari temporali diversi, rivive sia nella Venezia dell’Ottocento, quella dello scrittore Henry James, che in quella odierna del protagonista, di Olimpia e della Compagnia di Giorgione, mostrando come l’arte possa diventare un qualcosa di eterno che non possiede tempo. Lo stesso mistero, che attanagliava lo scrittore James cento anni prima, ritorna ai giorni nostri. Una pagina intera nel libro che si rifà a Il carteggio Aspern di James, descrive in maniera minuziosa e decisamente romanzesca l’opera: «Ancora adesso quel dipinto mi ossessiona. Ogni notte entro nel sonno da sveglio. […] È come se entrassi dietro le quinte di un palcoscenico per sbirciare tra i pesanti tendaggi. E ancora una volta la stessa scena si ripete. È un tardo pomeriggio estivo e nell’aria c’è la minaccia di un temporale. Un uomo e una donna stanno giungendo da lontano. Le loro figure sono ancora indistinte. Camminano su una stradina di terra battuta, costeggiando l’argine di un fiume che lambisce la cinta muraria cittadina lungo la quale biancheggiano sette torri in prospettiva. […] Dopo aver aggirato un folto albereto, riappaiono. Ora sono così vicini da poter distinguere il volto abbronzato dell’uomo, incorniciato da una folta chioma di capelli castani. Sopra una candida camicia di seta indossa un farsetto corto, di un color rosso brillante, aperto sul torace, e sotto, delle corte brache damascate che aderiscono alle cosce robuste. […] In contrasto con i colori vistosi dell’abbigliamento dell’uomo, lei veste in modo semplice, quasi monacale. […] Arrivati ad un fraticello vicino ad un rivolo d’acqua che scorre tra le rovine di un tempietto, la donna si ferma e depone sull’erba il suo tenero fardello […] Sedutasi prende a sé il bambino e lo porta al seno con atteggiamento curioso: poggiandolo all’esterno della coscia destra, […] mentre il ginocchio sinistro si piega pudicamente all’interno. E mentre alle loro spalle il sole calante abbaglia le candide torri, nell’altro versante dell’emisfero celeste si addensano nubi tempestose, squarciate da lampi e saette».
È interessante vedere come lo scrittore ricrei dentro la sua testa in movimento la scena dell’opera che però noi vediamo immobile. Ma il mistero di Giorgione, oltre a essere tale per l’iconologia di queste figure e della situazione, è tale anche per il fatto che la sua pittura sembra ricreare un qualcosa di vivo. L’enigma sconvolge anche la figura femminile del libro, Olimpia, che sceglie proprio quest’opera per la sua tesi: «Quando aveva scelto di scrivere la sua tesi di laurea su Giorgione, aveva deciso di copiare la Tempesta, perché era convinta che concentrandosi su quel dipinto si sarebbe sentita la sua allieva, sarebbe rimasta in intimo contatto con il maestro e questo le avrebbe facilitato il compito di comprenderlo». Sente una specie di immedesimazione, come se Giorgione rivivesse in lei per poterla guidare. E c’è ancora un’altra riflessione interessante che riguarda l’arte e la percezione del suo pubblico. Ecco un passo: «Ancora un’altra idea: quella del rapporto tra l’opera d’arte e l’osservatore. Chi dispensa a chi? È l’opera d’arte che dispensa luce o l’osservatore che illumina l’opera d’arte? Mi sembra che tutto questo assomigli molto all’antico dilemma: esisterebbe il mondo in assenza di qualcuno (almeno uno) che possa percepirlo?». Il protagonista assiste ad una delle numerose visite di scolari di fronte all’opera alle Gallerie dell’Accademia e nota che i ragazzi sono più presi a guardare la Tempesta piuttosto che ascoltare dati e date, perché per l’insegnante di storia dell’arte è molto più facile snocciolare serie di informazioni piuttosto che sforzarsi di far capire che un’opera è in grado di trasmettere emozioni e sentimenti. Ma quanto può arrivare lontano un insegnante? Può dire che i quadri sono vivi, che trasmettono delle energie, che portano dentro le tele e le pennellate i sentimenti del pittore che le ha trasferite lì? «Affermare che irradiano una forza sottile, che sono accumulatori di energia? Potrebbe mai paragonare un’opera d’arte ad una pila atomica?».
Il protagonista del libro fa anche un’altra riflessione sull’arte, dovuta alle sue conversazioni con la Compagnia di Giorgione. La sua esperienza a Venezia si intreccia, infatti, con un gruppo di studenti e persone normali, tra cui Olimpia, che fanno altri lavori nella vita, ma i quali hanno un interesse in comune: scovare il mistero legato alla Tempesta di Giorgione. Una specie di setta dei Poeti Estinti, guidata dal Professore, chiamato così perché ex insegnante di storia dell’arte all’Università di Venezia. La riflessione occupa la differenza tra arte oggettiva e soggettiva. La divergenza tra i due modi di fare arte porta ad una dialettica diversa tra artista, opera e pubblico. L’arte oggettiva viene da un creatore, un demiurgo, lo chiama Paolo Maurensig. Quindi, quello che ne verrà fuori dovrà essere compreso e apprezzato dal fruitore come la intendeva l’artista. Essa prevede una risposta emotiva ed interpretativa precisa e stabilita, mentre l’arte soggettiva lascia tutto al caso, è priva di un progetto creativo di partenza e il pubblico intenderà l’opera secondo le sue idee, le sue emozioni, le sue affezioni e pensieri. In questo continuo saltare tra passato e presente, tra la storia del regista protagonista e quella di Henry James, Maurensig ci racconta un momento interessante, frutto della sua fantasia ovviamente. James scrive nel suo diario a proposito dell’incontro con l’opera per la prima volta ed è geniale poiché questa esperienza può calzare a pennello a tutti noi nel momento in cui veniamo a contatto con l’opera. Insomma, James si era recato alla casa del principe Giuseppe Giovannelli, personaggio realmente esistito che, tra il 1875 e il 1876, aveva acquistato la Tempesta dalla collezione di Girolamo Manfrin. Il principe gli aveva mostrato tutte le opere, dalle più importanti alle meno, dalle attribuzioni certe a quelle più incerte, raccontando luogo e modalità di acquisto, delineando anche le lunghe trattative per ottenerle. Fino ad arrivare ad un quadro che più aveva incuriosito James e Giovanelli fremeva nel mostrarglielo, poiché l’aveva conteso col Museo di Berlino qualche anno prima. L’opera era su un cavalletto, ricoperta da un prezioso drappo rosso in seta, le dimensioni erano deludenti: trentasei pollici il lato più lungo. «Se penso ancora a quel momento, l’unica similitudine che mi viene in mente è quella dell’aprirsi di una minuscola crepa nel muro di una stanza buia in cui mi trovavo imprigionato […]. La sensazione fu quindi di inaspettato e incontenibile. Sentii tremare le gambe e cercai un posto dove potermi sedere. Quel quadro fiammeggiava, ardeva di luce propria. Restai a guardarlo per un tempo indeterminato, in uno stato di assenza di tempo. Ma forse guardare non è il termine esatto, direi che restai per delle ore ad assorbirlo; vidi passare sulla sua superficie tutti i riflessi della luce pomeridiana, l’intero spettro dei colori. […] Quando uscii da questo mio ammutolito stato interiore, quando ripresi i sensi, una frase […]mi risuonò in mente: Quanto siamo lontani dalla verità tutte le volte che crediamo di interpretare un’opera d’arte. E quanto sono in effetti inadeguati i nostri strumenti linguistici, quelle parole che mettiamo assieme con cura e grazia, come farebbe una massaia con i suoi ninnoli natalizi, pensando di spiegare con la buona forma il mistero della natività divina».
E ancora sotto il nostro James si lascia scuotere ancora da tali emozioni, sostenendo che questo quadro non va a smuovere soltanto il senso della vista, ma li smuove tutti: «Tutto il nostro apparato percettivo si risveglia di fronte a quel dipinto: oltre la vista, già pienamente soddisfatta, anche il tatto, l’udito e l’olfatto si risvegliano». «Già avvertiamo in volto l’umidità, annusiamo l’alito palustre che la brezza temporalesca solleva dalle sponde del fiume, e l’udito, cullato dal sommesso gorgoglìo del ruscello, resta in attesa di un tuono che seguirà a breve lo squarcio del fulmine in lontananza.». E le figure? Le figure diventano un qualcosa che non si capisce. Non sappiamo perché sono lì, continua James. Armonizzano magistralmente col paesaggio, ma la loro collocazione è sconcertante e incomprensibile. «Il dipinto risulta estremamente provocatorio per una mente che sia in cerca di un approccio critico, in quanto pur dandoci un’apparente sensazione di completezza, risulta privo di limiti. Esso ci obbliga ad interrogarci sulle stesse ragioni del suo potere di tenerci in sacco, ci chiama alla più stimolante delle sfide: quella di arrivare a capire da quale fonte sacra scaturisca la sua malìa». Da un sentimento di benefica attesa, subito dopo ci sembra di precipitare verso il panico.
In altre pagine del libro si cerca di scardinare il mistero di Giorgione, si parla di lui come di un iniziato rosacroce ante litteram, che per quest’opera si è ispirato ad un libro in cui erano riportati antichi simboli della fratellanza rosacrociana. In particolare, un’allegoria che prevede uno squarcio nel cielo dovuto ad una saetta. Tornando alla storia, invece, del regista americano che sta cercando spunti per il suo film, rifacendosi a Il Carteggio Aspern di James, si assiste ad un dibattito sull’arte nella Compagnia di Giorgione alla presenza del Professore. L’arte non può essere guardata da un punto di vista solo estetico, non è un oggetto da contemplare in estatica attesa, come fosse un’immagine sacra, ma deve essere una specie di stimolo a svelare i significati più riposti, le intenzioni reali insite. In più, il Professore sostiene che non si può comprendere un quadro senza aver conosciuto tutto il percorso dell’artista, le altre sue opere, la sua vita. Tant’è che organizza per questa compagnia una serie di gite fuori porta per osservare le opere dal vivo, da vicino e non tramite le riproduzioni che fanno perdere l’animo originario dei capolavori. Sul quadro gli esponenti della compagnia danno le loro più svariate opinioni: si va dall’interpretazione biblica, ovvero che siano Adamo ed Eva i protagonisti e il fulmine come furia divina. Alcuni avanzano l’ipotesi che non voglia significare un bel niente e sia solo una visione poetica, anche perché un’invenzione radiografica aveva dimostrato come l’opera avesse avuto una prima versione, dove al posto dell’uomo c’era un’altra donna. Solo successivamente Giorgione aveva cambiato idea e sostituito la figura con una maschile. Si apre un dibattito anche sulla armonica proporzione delle due figure, che nascondono però un’insolita sproporzione. Se infatti la donna seduta si alzasse in piedi e la si ponesse sulla stessa linea della figura maschile, ella sovrasterebbe la seconda di almeno una spanna. Ciò significa che il ripensamento di Giorgione è avvenuto quando stava per iniziare il quadro e non ad opera finita. Giacomo, uno dei ragazzi della Compagnia, sostiene nel dibattito che i simboli in questa opera non vanno razionalizzati perché non sono stati concepiti per un processo del genere.
Quando si cerca di razionalizzare un simbolo, lo si inserisce in un preconcetto di cultura, esperienza e società. Cercare di dare una spiegazione ne spegne il significato profondo, lo fa perdere. Il simbolo, invece, deve in un certo qual modo aprire le porte dell’inconoscibile, è il nostro essere interiore e non il cervello che deve recepirlo. Ciò che permette il legame tra essere interiore ed esteriore è l’immagine-simbolo. L’artista è sempre dotato di un essere interiore che lavora, anche se non sempre riesce a tramutarlo in arte e farlo arrivare al suo pubblico. Siamo per un dipinto degli spettatori partecipi e non passivi. Quando ci capita di venire a contatto con un ritratto, ci comportiamo come quando cerchiamo l’attenzione di un volto bellissimo: facciamo di tutto per comunicare con quello sguardo che diventa ipnotico per noi, smuove un anelito, un qualcosa di indefinibile e terribilmente attraente. In più, un volto dipinto ha il potere della permanenza, dell’eterno, è immutabile nel tempo. Il legame rimane immobile e sospeso e come tale non perderemo mai l’attenzione verso di esso. Il vero artista riesce a proiettare la sua anima nell’opera facendoci intuire l’esistenza dell’invisibile, tutto questo grazie al simbolo.
La seconda parte del libro si concentra maggiormente su Henry James, alias Paul Temple, e sulla sua esperienza a Venezia alla fine dell’Ottocento. Interessante per questo nostro excursus sull’arte contenuto nel libro è un dialogo che James ha insieme ad uno strano signore, ricco collezionista che incontra durante un pranzo presso la moglie dell’ambasciatore americano. Il dibattito verte su cosa l’arte vada veramente a rappresentare. L’arte è bellezza come pensa Temple? E che tipo di bellezza? Forse di un volto, delle vesti, dell’armonia di un corpo, della natura? E la bellezza di cui parla Temple, come gli fa notare Damiani, non è semplicemente quella percepibile ai nostri sensi? Damiani controbatte sostenendo che gli artisti sono posseduti da una specie di demone che dipinge e agisce per loro e impone loro cosa scegliere. La bellezza non è mai sempre la stessa, non è espressa mai alla stessa maniera. Esiste anche l’assenza della bellezza il più delle volte poiché gli artisti dipingono il mondo che si avvicina più alla realtà che loro stessi percepiscono e può essere priva di bellezza. E la Bellezza in sé? La incontriamo mai? A volte può essere riflessa in un oggetto, in un quadro: «Vi sono dipinti che non si concedono, che non danno, ma pretendono: muti, impenetrabili, che non si spiegano, ma esigono da noi una risposta; capolavori che si illuminano della nostra stessa luce, da quella luce che viene non dalla ragione, ma dallo spirito.». Temple risponde a questa riflessione di Damiani dicendo: «Si direbbe che dall’arte voi vi aspettiate la risposta all’enigma dell’universo».
Per cui, forse risiede davvero in questo continuo ricercare e cercare un senso ai simboli, alle figure, alle immagini, alle bellezze questo enigma? È nello spiegarsi i misteri nei quadri, che sono i misteri degli artisti, che sono i misteri degli uomini quindi, in cui si trova il grande arcano che ci circonda? Un ruolo imponente viene regalato all’arte in questo libro, di certo molto magico, pieno di mistero, esoterismo, stregoneria, favolistico come ragionamento, ma possiede un fondo di verità.
Il libro si conclude con l’incontro di Temple con la Tempesta di Giorgione a casa di Damiani. Temple ci viene presentato come un personaggio con un rapporto difficile con l’arte, fin da quando è bambino ne è rimasto folgorato come Paolo sulla via di Damasco, durante la sua visita con i genitori alla “Galerie d’Apollon”. Sta cercando un quadro per scrivere un libro che parli di un giovane critico ossessionato da un’opera di cui non riesce a svelare il significato, di cui è a conoscenza solo il proprietario, il quale si porterà questo segreto nella tomba. Non sa ancora che quadro sarà, ha in mente una cornice vuota per ora, non sa se sarà un paesaggio, una scena campestre, delle figure. Non sa neanche bene a quale scuola pittorica rivolgersi, se a Tintoretto, Tiziano, Leonardo, Sebastiano del Piombo, Raffaello. Sa che il suo artista deve avere queste caratteristiche: la sapiente coloritura di Tiziano, la prospettiva di Leonardo e il fascino misterioso di Dürer. Quando arriva a casa di Damiani, che lo invita sostenendo di avere il quadro giusto per lui, Temple passa tra i vari Perugino, Vittore Carpaccio, Andrea del Sarto e sente come un palpito di emozione, come se non gli fosse concesso di stare tra questi miti: «Era inevitabile sentirsi elevati ad una sorta di investitura culturale, chiamati ad entrare in un ristretto circolo di eletti».
«La porta dava su un corridoio rivestito da entrambi i lati da una lunga boiserie di ebano, e ogni quadro era inserito nella propria nicchia scura che ne faceva risaltare i colori. Tiziano Vecellio, Paolo Veronese, Correggio…[…] E mentre camminavo tra i ritratti che mi seguivano con lo sguardo, mi chiedevo se l’arte pittorica, nei suoi diversi canoni espressivi, fosse il mezzo più adatto a trasmettere un sentimento universale; mi chiedevo se un’opera d’arte fosse in grado di essere capita appieno sin dal primo momento della sua nascita, e se, sottostando a leggi dinamiche, legate al tempo, al movimento dei corpi celesti e alla stessa evoluzione dello spirito umano, nonché alla sua cultura, non fosse obbligata invece a mutare in continuazione. Mi dicevo spesso che dedicarsi all’Arte equivaleva a credere in un mondo ancora possibile, postulare un luogo ideale in cui trovare la nostra nuova innocenza, ricostruire un Eden dove non ci fosse più la tentazione del Serpente, né la collera del Giardiniere». Come nel sogno che aveva fatto percorrere il corridoio verso il capolavoro riempie Temple di un’ansia, di una spossante attesa per un trionfo, per una rivelazione. Una specie di lungo pellegrinaggio che trovava il suo termine e lo scioglimento delle catene di questa ricerca estenuante: «Nella luce di quei colori pensai di ravvisare la fonte stessa dell’unità poetica, e nell’armonia dell’insieme, la sintesi dell’Idea della Bellezza». Il quadro diventa per lui una vera e propria ossessione, ravvisa in ogni volto quel volto, in ogni sguardo di donna quello sguardo, in ogni natura quella natura. Temple perde nelle ultime pagine la strada che l’Arte gli aveva sempre spianato, perde il rifugio che vi aveva sempre trovato, perché quell’opera diventa l’unica possibile. Gli altri quadri non comunicano più niente, diventano muti, perdono ogni colore.
Il tentativo è stato quello di ravvisare, nelle pagine di Maurensig, i concetti primari riguardanti l’opera e l’arte, ciò che di più comprensibile e usufruibile la narrativa può concederci riguardo ad essa, anche se magari caricato di inventiva. Ma, del resto, anche quando l’arte porta dietro di sé una storia, un significato, una serie di riflessioni dettate dalla critica e dalla comprensione del contesto in cui si è sviluppata, ognuno di noi può vedere nell’opera quello che vuole e desidera vedere. E questo è forse un qualcosa di straordinariamente giusto ed egualitario.