«Eseguivi il lavoro con orgoglio e sei stato respinto. Devi eseguirlo in tremito» in “La Natura Esposta”

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di Sara Pitolli

Il romanzo si sviluppa in maniera lineare, senza alcuna interruzione né suddivisione, dal principio alla fine. L’unico elemento di svolta all’interno della narrazione è costituito dal trasferimento del personaggio principale che, originario di un piccolo paese di montagna al confine, è costretto a spostarsi in un villaggio sul mare.

Il protagonista, un uomo sulla sessantina, era un artigiano abile nei lavori manuali e nell’incisione che, per guadagnarsi da vivere, accompagnava i visitatori del paese dall’altra parte della montagna, confine naturale, attraverso lunghi e tortuosi sentieri. Un giorno si venne a sapere che i soldi ricevuti dai viaggiatori che accompagnava erano a questi ultimi restituiti alla fine della traversata, motivo per cui la comunità lo costrinse all’esilio e, dalla montagna, l’uomo scese in un villaggio vicino al mare. Qui, dopo una serie di ricerche di impiego e sopralluoghi all’interno delle Chiese del posto per ricavarne attività di restauro, riuscì ad ottenere un delicato incarico da parte di un sacerdote.

Questo consisteva nel restauro di un Cristo sulla croce, in marmo, opera di uno scultore che lavorò nei primi del Novecento e che però nello stile e nella tecnica ricalcava a pieno i caratteri tipici rinascimentali. La delicatezza dell’intervento era determinata dalla volontà di ripristinare le fattezze originarie della statua, rimuovendo il panneggio inserito successivamente e rivelando, dunque, la “Natura Esposta”Facendo delle ricerche presso la biblioteca locale, egli scoprì che lo scultore era un giovane che prestò servizio militare al tempo della Grande Guerra e che aveva studiato e perfezionato la resa dell’anatomia umana proprio stando a contatto con i cadaveri dei compagni.

Tra le tematiche che tengo a sottolineare e ad approfondire, infatti, c’è quella dell’importanza della storiografia artistica, che ha permesso al protagonista di indagare la vita, le esperienze e lo stile dello scultore per realizzare un restauro quanto più possibile vicino al suo intento originario. Egli, infatti, scrisse: «Mentre respiro la polvere della carta sfogliata, un colpo di fortuna. Un mensile pubblicò la foto della statua originale. L’immagine occupa mezza pagina, comunque mi serve la lente d’ingrandimento che porto in tasca per migliorare la mia vista. Osservo la forma della natura esposta». In questo passo, il protagonista prende un contatto diretto con l’opera, non più immaginario o estrapolato da racconti verbali: egli iniziò a scandagliarla in maniera più approfondita, aprendosi al terzo sguardo. In tal modo, ciò che appariva come una semplice opera di restauro andò ad acquisire un valore aggiunto, scaturito dalla portata culturale che la scultura aveva nel momento in cui fu realizzata.

Un ulteriore elemento su cui vorrei porre attenzione è quello della luce, la cui importanza nella ricezione dell’opera fu sottolineata nello stesso articolo che descriveva la fotografia: veniva raccontato, infatti, come il giorno 24 dicembre 1921 la scultura fosse stata esposta, per una visione privata, alla stampa locale all’ora del tramonto, momento in cui, raccogliendo le sfumature rossastre del sole, la statua ne avrebbe accolto e riflesso l’effetto luminoso, prendendo l’aspetto di carne viva. Nel momento in cui la luce naturale venne a mancare, si intervenne accendendo una sola candela. Un cronista si ritenne emozionato nello scoprire per la prima volta che «una scultura ha bisogno di una luce, una sola, per occupare spazio.» Il protagonista stesso, intenzionato ad una lettura quanto più contestualizzata possibile dell’opera, dopo la lettura decise di illuminare la statua con una candela scorgendone, così, addirittura la tiratura dei tendini.

Un dettaglio che mi ha incuriosito all’interno del racconto è stato il discorso sulla fruizione che la scultura avrebbe avuto al termine del restauro: durante un colloquio tra il protagonista, il prete della chiesa ed il vescovo locale, venne espressamente richiesto dal primo quale sarebbe stata la destinazione d’uso della statua, dichiarando che essa ne avrebbe condizionato il lavoro. Il dubbio, in particolare, riguardava il luogo ove essa sarebbe stata posizionata: un dettaglio non poco indifferente della scultura era, infatti, la resa del crocifisso originale con un principio di irrigidimento nella zona inguinale che incuteva, nel protagonista, un certo timore nel procedere con una restaurazione fedele, nel caso in cui esso fosse stato esposto in un ambiente sacro. L’interrogativo fu però liquidato dal vescovo con le parole: «L’opera sarà esposta nei musei. La Chiesa darà il suo consenso, ma non so dirle se la ospiterà nel suo spazio».

Quella tra terreno e divino è un’antitesi che trova spazio in tutto l’arco del racconto e che raggiunge il suo apice nella parte finale. Nel corso del romanzo, infatti, raramente il protagonista si fermò a riflettere sulla sacralità della statua, addirittura azzardò un parallelismo tra la propria storia, l’esilio dal paese, e quella di Cristo, condannato a morte proprio nella propria città d’origine. Tutto questo viene spezzato nelle ultime pagine, all’interno delle quali, nel momento in cui il restauratore si accingeva ad unire il pezzo della “Natura” alla statua originale, una sorta di impotenza si impossessò delle sue azioni, rendendolo incapace di completare l’opera. Sottolineando che il giusto approccio alla religione e, di conseguenza, all’arte sacra debba essere attraverso la devozione, il romanzo si chiude con la frase: «Eseguivi il lavoro con orgoglio e sei stato respinto. Devi eseguirlo in tremito».
In quel momento, l’uomo riuscì a far combaciare i pezzi.

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