Caravaggio, Pasolini e Longhi. Innovazione, Rivoluzione e Riscoperta.

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di Emma Ciufo

“Tutto ciò che io posso sapere intorno al Caravaggio è ciò che ne ha detto Longhi. È vero che il Caravaggio è stato un grande inventore, e quindi un grande realista. Ma che cosa ha inventato il Caravaggio? Nel rispondere a questa domanda che non mi pongo per pura retorica, non posso che attenermi a Roberto Longhi.”

Così esordì Pier Paolo Pasolini nel saggio “La luce di Caravaggio”, elaborato nel 1974 e dato alle stampe solamente venticinque anni dopo [in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, II, “Meridiani” Mondadori, Milano 1999].

Tra il 1941 ed il 1942 Pasolini aveva avuto modo di seguire le lezioni tenute da Longhi, presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna.

Galeotto fu quell’incontro. Pasolini rimase fortemente colpito dalla metodologia didattica utilizzata dal celebre professore che era solito proiettare diapositive, molte delle quali ritraenti dettagli delle opere da lui discusse di fronte agli studenti. Fu certamente l’esperienza delle lezioni di Longhi, con particolare riguardo all’opera di Caravaggio, a orientare il giovane universitario allorché intraprese i suoi primi passi nel mondo della cinematografia.

Nel 1951 Longhi organizzava la grande mostra monografica dedicata al Merisi. Fu un vero e proprio successo: quattrocentomila persone giunsero a Palazzo Reale a Milano per ammirare i dipinti del maestro lombardo. Anche questo evento influenzerà inevitabilmente la poetica del neolaureato Pasolini, che non mancò di trasporre nelle sue pellicole le più diverse suggestioni storico-pittoriche, in particolar modo nella sua ricerca di primi piani e di dettagli. La rivalutazione moderna, allora operata da Longhi, di un Caravaggio ‘popolare’ finì per esercitare anch’essa una profondissima suggestione su Pasolini, nel momento in cui questi rivolse il proprio sguardo verso il panorama popolare della Roma degli anni ’50: «Gli occhi che avevano pianto in sogno ora guardavano senza limiti di tempo o scadenze, con pomeriggi o notti intere davanti, in cui non accadeva che ciò che la storia dimenticava» [Pier Paolo Pasolini, “Meditazione Orale”, Aprile 1970]

Caravaggio era «giunto a Roma con quel diavolo in corpo della “pittura naturale”», come aveva scritto Longhi. Allo stesso modo, a distanza di tre secoli, negli anni ’50 del Novecento, aveva fatto un ragazzo bolognese di 28 anni, Pier Paolo che dovette districarsi tra la contorta esistenza romana, ora a Piazza Costaguti, dove trascorse un primo periodo in una stanza in affitto non troppo lontano dal Carcere di Rebibbia, ora alla Fontana delle Tartarughe in Piazza Mattei, dove entrò in contatto con quei “Ragazzi di Vita” che tanto ci ricordano gli stessi fanciulli dipinti da Caravaggio, figure gravate nella realtà del peso di un esistenza spesso rude, elevante all’interno di una cornice allegorica senza tempo.

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