L’arte ne “Il quadro segreto di Caravaggio” 

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di Michela Caretta

Qualunque libro che tratti di storia dell’arte, sia esso un saggio o una semplice lettura d’intrattenimento, non dovrebbe prescindere dal fornire una coerente panoramica storica, la quale apre una parentesi sul come si viveva in un dato periodo, elenca gli eventi negativi che ne sconvolsero le esistenze e quelli positivi che le migliorarono.  In secondo luogo, dovrebbe offrire una buona sintesi dell’arte. 

Quando ci si trova ad affrontare questo argomento, occorre porsi una domanda: qual è il significato del lavoro dell’artista e cosa vuole rappresentare con la sua opera? In fondo l’arte, in tutte le sue forme, non è altro che lo strumento di comunicazione con cui lui parla di sé e si fa conoscere. È proprio ciò che Francesco Fioretti ha cercato di fare nel suo libro “Il quadro segreto di Caravaggio”. L’autore sviluppa la narrazione nella Roma del 1604, al tempo della Controriforma, uno dei periodi più cupi per la storia della città. Il contesto in cui si dipana la contorta trama del romanzo, pieno di segreti oscuri e delitti misteriosi, coinvolge la parte più “bassa” della società del tempo, insieme alla corte papale, dove la corruzione e gli intrighi erano diffusi. In tale situazione si muove l’artista Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio. Fu un pittore lombardo, nato nella seconda metà del 1500, che visse fino al 1610 in diverse città italiane tra cui Milano, Roma, Napoli e anche nell’isola di Malta. L’artista lombardo raffigurava sempre soggetti poveri, umili, provenienti dai bassifondi periferici. Come è ben spiegato nel testo di Fioretti, Caravaggio, già nella fase preparatoria di una tela, era solito realizzare, prima di ogni pittura, un disegno con il fondo nero, utilizzando poi la biacca per porre in risalto le zone illuminate. Questa luce, che andava a colpire i personaggi principali delle opere, rappresentava la “grazia divina”. Francesco Fioretti ci riporta il pensiero dell’artista, anzi fa di più, lo fa esprimere al Caravaggio stesso, il quale agisce e parla in prima persona nelle pagine del romanzo.

Un esempio ben descritto sull’importanza della luce rispetto alle zone in ombra nelle opere del Merisi è “La vocazione di San Matteo”: il santo è raffigurato all’interno di un locale di infimo ordine, con alcuni uomini ubriachi seduti ad un tavolo a bere e giocare a carte. La sua figura è illuminata proprio da un fascio di luce, simbolo della grazia divina. Per Caravaggio essa, ossia il bene, era un dono che Dio dispensa all’intera umanità, indipendentemente dalla posizione sociale. L’artista era inoltre convinto che più ci si trovasse tra poveri, tra i meno fortunati, più si potesse trovare il bene. Le convinzioni del pittore erano in contrasto con le opinioni di Federico Zuccari, fondatore dell’Accademia di San Luca. Costui criticava le scelte dell’artista lombardo e vietava ai pittori facenti parte della sua cerchia di «spacciare prostitute per madonne». Questo sta a significare che l’artista lombardo era criticato dai suoi colleghi, proprio perché usava come modelli per i suoi quadri sempre la gente del popolo: poveri, prostitute, delinquenti. 

L’Accademia di San Luca, sotto le cui direttive si formavano gli artisti, era una vera scuola d’arte riconosciuta anche fuori dalla città pontificia. Essi seguivano le regole, già esposte nei “Discorsi intorno alle immagini sacre e profane” del cardinal Paleotti. Nel trattato ecclesiastico, egli poneva dei principi e dei limiti per la rappresentazione delle figure. C’era però persino chi ammirava il lavoro di Caravaggio, come l’amico cardinal Del Monte, che lo stimava a tal punto da collezionare gran parte dei suoi quadri.

Il libro di Francesco Fioretti, pur essendo un romanzo, ci dà un’immagine chiara e precisa della società nel Seicento, spiegando la vita e l’attività artistica del pittore. 

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