Elementi storico – figurativi del testo di Vincenzo Consolo – “Il sorriso dell’ignoto marinaio”

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Il sorriso dell’ignoto marinaio pubblicato nel 1976 ha segnato l’affermazione di Vincenzo Consolo tra i grandi narratori del secondo dopoguerra. La storia del romanzo ruota intorno alla figura del barone filantropo Enrico Pirajno di Mandralisca, appassionato malacologo, di idee liberali ma lontano dall’azione politica, il quale nel 1852, a bordo di una nave diretta da Lipari a Cefalù, nota in uno sconosciuto marinaio una forte somiglianza con il soggetto di un dipinto di Antonello da Messina, il Ritratto di ignoto marinaio, che egli ha da poco acquistato dallo speziale Carnevale a Lipari. Quattro anni più tardi, Mandralisca viene a sapere che il passeggero era in realtà l’avvocato Giovanni Interdonato, il quale stava segretamente rientrando in Sicilia per organizzarvi l’opposizione ai Borboni. In questa occasione, l’avvocato Interdonato cerca di scuotere il barone facendogli aprire gli occhi di fronte alla situazione politica del momento:

«’E voi pensate che in questo momento siano tutti lì ad aspettare di sapere i fatti intimi e privati delle scorze e delle bave dei lumaconi siciliani?’ ‘io non vi permetto! …’ scattò il Mandralisca.

‘E voi invece, barone, mi dovete permettere, perché non siete un pazzo allegro, un imbecille come la maggior parte degli eruditi e dei nobili siciliani… voi siete un uomo che ha le capacità di mente e di cuore per poter capire’».

Riesce nell’intento, infatti, nel 1860, quando ad Alcàra Li Fusi scoppia una delle rivolte contadine contro i Borboni scatenate dall’arrivo dei garibaldini. Il barone di Mandralisca decide di assumere un impegno civile: abbandona i suoi studi sulle conchiglie, intercede in favore dei braccianti presso Interdonato, divenuto Procuratore generale della Gran Corte di Messina e che aveva il compito di giudicare i rivoltosi e si dedica infine alla fondazione di scuole popolari: «I libri, la raccolta delle antichità ed i dipinti saranno una pubblica biblioteca e un museo, nel quale risplenderà, come un gioiello, quel ritratto d’ignoto d’Antonello, a voi sì simigliante…».

Un esempio, questo, di apertura al pubblico di un museo, di fruizione di opere fino ad allora solo per pochi. Molti anni prima, precisamente nel 1503, anche Leonardo Da Vinci ha aperto le porte a tutti i cittadini per far vedere il cartone non finito di Sant’Anna. 

Attraverso il quadro dell’ignoto marinaio, l’autore si interroga su grandi temi come la posizione dell’intellettuale dinanzi alla storia, il valore e le possibilità della scrittura letteraria, gli eventi cruciali della storia civile italiana, del passato e del presente. Consolo, con la sua penna, ha contribuito a ricostruire i fatti avvenuti nel paesino di Alcàra Li Fusi a partire dal 17 maggio 1860, facendo rivivere ai lettori le aspettative, le necessità e i sentimenti degli innocenti che sono stati strumentalmente immolati in quei tragici giorni di centocinquanta anni fa. Attraverso la figura di Mandralisca, si fa portavoce del malessere delle genti siciliane e dello spirito popolare tradito dalle strutture politiche. L’interesse storico e la ricerca della memoria hanno fatto sì che l’autore creasse un lavoro al confine tra il romanzo e il saggio storico: vi ha inserito, infatti, anche documenti dell’epoca, spesso manipolati. Un romanzo che presenta una commistione tra arte e narrativa, tra storia e attualità.

L’Ignoto marinaio di Antonello da Messina è una splendida tavola dipinta ad olio di piccole dimensioni, ma dotata di un carisma unico. Al centro dell’opera un uomo, ripreso di tre quarti, che si staglia su uno sfondo scuro, nero. Gli abiti che indossa sarebbero quelli di un marinaio dell’epoca. I dettagli della giacca e del berretto si mescolano con il fondo.

Le influenze della pittura fiamminga su Antonello da Messina si fanno sentire nei lineamenti, nei dettagli e nell’incarnato rossiccio. L’uso dei colori è essenziale. Il bianco e il nero risaltano la luce che, radente, segna il volto. Quando capita di ammirare il Ritratto d’ignoto marinaio si è immediatamente colpiti dall’espressione del soggetto. Antonello riesce ad ottenere un sorriso naturale con inclinazioni ironiche beffarde, tenendo conto in modo perfetto del movimento dei muscoli facciali e rendendo ridenti gli occhi stessi, occhi che sono puntati verso lo spettatore. L’osservatore entra in empatia con l’uomo del dipinto, la cui espressione pare assumere un’aria di complicità con chi lo guarda. La profondità psicologica dei ritratti di Antonello da Messina è una delle sue peculiarità. È così che, anche in quest’opera, il soggetto non è ripreso in maniera asettica con l’unico obiettivo di poter semplicemente “registrare” che sia esistito storicamente in un determinato periodo. Il marinaio, nel pennello di Antonello da Messina, si anima, prende vita. Molto di più. Il soggetto crea una connessione con chi lo guarda.

Il romanzo prevede il contesto risorgimentale degli anni Sessanta dell’Ottocento. Garibaldi è sbarcato a Marsala e le sue azioni, spesso circondate fin da subito da una fama quasi mitica o leggendaria, hanno dato il via ad una serie di avvenimenti militari, politici e sociali che hanno portato in breve tempo alla fine del Regno delle Due Sicilie ed alla nascita di un nuovo stato unitario, proclamato solennemente il 17 marzo 1861. Certo la storia è più complessa, Garibaldi non è stato l’unico protagonista di quegli eventi e molte sono state le cause, le conseguenze e le contraddizioni di quel processo unitario. La realtà economica e politica della Sicilia allo sbarco dei Mille era determinata da una duplice realtà: la feudale e la contadina; in questa cornice, il rapporto tra titolare della terra e chi la lavorava era di vera ed assoluta sudditanza. Le condizioni dei contadini erano più vicine a quelle dei servi della gleba che a quelle dei lavoratori dei campi degli altri paesi europei. Queste poche battute, dunque, ci aiutano a capire quale fossero le speranze e le aspettative dei contadini e dei pochi altri lavoratori quando in Sicilia sono giunti i Mille. La miseria, la sofferenza erano le sole cose di cui erano titolari. La società era divisa in due classi “coppuli” e “cappedda”: alla prima appartenevano i miserabili, alla seconda i “burgisi”, i civili ed i nobili. I primi privi di ogni diritto, a volte erano deprivati anche della dignità di uomini, ai secondi era concesso tutto, anche di “usare” le donne dei bisognosi. Non è difficile immaginare le prospettive promesse ai ceti più umili affinché insorgessero: l’Unità d’Italia e la libertà politica erano problematiche meno immediate e la popolazione doveva affrontare questioni più concrete come la terra, il lavoro, il pane.

Ad Alcara è fissato l’appuntamento per l’inizio della rivolta nella chiesa del Rosario per il giovedì 17 maggio giorno dell’Ascensione. All’alba di quel giorno i “miserabili”, nessuno di loro manca all’appello, armati di tutto ciò di cui è stato possibile munirsi, con alcune bandiere tricolore, improvvisate con pezze di stoffa messe insieme, cominciano a percorrere le vie del paese al grido di: «Viva Garibaldi, viva Vittorio Emanuele, viva l’Italia, a morte i cappeddi». Lungo il percorso, il corteo si va ingrossando perché vi si uniscono donne e bambini. Verso le undici antimeridiane, i manifestanti si presentano nella piazza di fronte al “casino dei civili” dove i “civili” si riuniscono per discutere e giocare, in attesa che si faccia l’ora di pranzo. Quivi, ad un certo momento, esplode la rabbia dei contadini, si registra una carneficina. Undici persone tra i civili sono trucidate, compresi due ragazzi, tra cui il sindaco, il figlio ed il nipote. È difficile ricostruire lo svolgimento esatto dei fatti, dato che sono andati perduti i tre volumi dell’inchiesta, l’elemento certo è il risultato di 11 morti ammazzati ed il paese in mano ai rivoluzionari fino al 24 giugno, giorno in cui il colonnello garibaldino Giovanni Interdonato (cugino dell’avvocato Interdonato), con un manipolo di uomini, giunge ad Alcara senza incontrare ostilità alcuna, per riportarvi l’ordine. Mostrandosi amico dei rivoltosi, l’Interdonato, dopo aver reso gli onori alla bandiera tricolore esposta nel municipio, convoca i capi del movimento rivoltoso facendosi consegnare le armi in loro possesso. Successivamente, procede a far arrestare i facinorosi, incaricando don Luigi Bartolo Gentile (un “burgisi”) di provvedere alla gestione della cosa pubblica. Come era naturale che avvenisse, per cominciare a dare un segno della vendetta, costui provvede a far arrestare quei congiurati che dal colonnello Interdonato sono stati lasciati liberi perché marginalmente implicati nella sommossa. Preme solo sottolineare che tutti i documenti reperiti hanno una sola matrice: i “cappeddi”, (i soli che sappiano usare la penna) e che i componenti delle commissioni, malgrado l’invito della Segreteria di Stato di inserirvi anche artigiani e contadini, erano interamente composte da soggetti appartenenti al rango della borghesia agraria o al ceto dei “civili”.

La Commissione Speciale di Patti, il 18 di agosto, senza tenere in alcuna considerazione le giustificazioni che gli incriminati esternano, emette una dura sentenza, senza appello, di condanna a morte per 26 persone e sette condanne a 25 anni di carcere, mentre per 33 ne decide il rinvio. Dai documenti risulta che il 20 agosto sarebbe stata eseguita la sentenza per 12 dei rivoltosi nel piano della Chiesa di San Antonio Abate di Patti. In quel momento l’illusione rivoluzionaria è già finita da tempo, Garibaldi ormai è lontano, quello stesso giorno varca lo Stretto, lasciando la Sicilia. Si consuma, quindi, tutta la tragedia ma la storia dei fatti di Alcara non si conclude qui, prosegue nelle aule dei tribunali. Si chiude così la vicenda anche per gli altri imputati al processo ed una delle pagine più nere del Risorgimento finisce così di essere scritta. 

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