CHI HA UCCISO IL KINKAKU-JI?

by admin
0 comment

di Roberta Mingione

non si può uccidere chi, come gli uomini è mortale. Sono suscettibili di distruzione solo le cose indistruttibili come il Padiglione d’oro

Niente avrebbe potuto scalfire la luccicante bellezza del Kinkaku-ji (Padiglione d’oro), tranne la mano di un giovane monaco che lo diede alle fiamme nel 1950. Arrestato dopo essere sopravvissuto a un tentativo di suicidio, fu condannato a 7 anni. Dichiarato schizofrenico, uscì di prigione dopo poco tempo. Hayashi Yoken aveva appena 28 anni quando morì di tubercolosi nel 1956. Il Tempio fu completamente ricostruito come l’originale e rientra nel patrimonio UNESCO: la costruzione originale risaliva al 1397, in stile Muromachi (XV – XVI sec.), costruito dallo shogun Ashikaga Yoshimitsu.

Questo fatto di cronaca venne ripreso da Yukio Mishima (Hiraoka Kimitake, Tokio 1925 – Tokio 1970) che ne trasse un romanzo, pubblicato nell’anno della morte dell’autore dell’incendio (1956). Stranamente è anche l’anno della morte del famoso regista Kenji Mizoguchi. Ancora più singolare è la scelta del nome del personaggio del romanzo: Mizoguchi, ma su questo torneremo in seguito.

Mishima nel suo romanzo narra della distruzione del Tempio da un’angolazione psicologica: descrive gli anni in cui il protagonista vive nel Tempio come novizio che lo condurrà all’atto estremo della distruzione.

Il rapporto tra il protagonista e il Kinkaku-ji inizia molto tempo prima: prende forma nei racconti del padre (abate di un piccolo tempio), racconti carichi di bellezza e perfezione.

Mizoguchi realizza nella sua mente l’immagine del Tempio servendosi di foto e disegni pescate dai libri, lo idealizza al punto che quando lo vedrà la prima volta ne rimarrà fortemente deluso. Si sente persino inadeguato a comprendere la bellezza di quell’architettura così discordante, in un certo qual modo incompiuta. L’inadeguatezza è un leitmotiv che caratterizza tutta la vita del protagonista: dalla condizione di balbuzie che lo isola dal mondo, nel rapporto con alcuni coetanei, con l’abate del Tempio e rispetto al Kinkaku-ji stesso. Nello stesso tempo la bellezza è il leitmotiv che caratterizza il Kinkaku-ji. 

Mizoguchi realizza, in tutto il romanzo, una sorta di percorso interiore attraverso la contemplazione del Tempio: in un certo senso raggiunge la sua illuminazione in perfetto stile zen, inteso come ‘liberazione’. Allo stesso tempo il Tempio, silenzioso ma presente nella sua fisicità, suscita queste riflessioni nel protagonista.

Il tema delle riflessioni si centra sulla bellezza tangibile, quella bellezza che si può toccare e può essere ‘vista’ con gli occhi, ma questo crea un problema perché lo stesso Mizoguchi non vuole essere visto, vuole essere invisibile agli occhi del mondo, o meglio vorrebbe essere visto ma non come un ragazzo deforme e balbuziente. L’accettazione oltre l’oggettività diventa soggettiva nel pensiero occidentale, ma non in oriente, non per lo zen, per cui il contrario di oggettivo, sinonimo di pieno, è il vuoto.  Da qui la consapevolezza iniziale che il Tempio, come oggetto fisico, come architettura immutabile, è inaccettabile; la chiave è il ‘divenire’, l’equilibrio è in divenire, è un processo continuo e il mutamento è inevitabile. Il vuoto è necessario per la costituzione di ogni cosa e rappresenta la vera utilità di ogni oggetto, compreso quello architettonico. Lo spazio delimitato, dapprima occupato dall’oggetto, viene occupato dal tempo: è una metamorfosi in proiezione di un’entità incorporea. Tale convinzione era resa ancora più forte dall’ornamento sulla cima della pagoda: una fenice d’oro e di rame, che non cantava, né mai sbatteva le ali, umiliata nella sua natura di uccello. Eppure come gli uccelli volavano nell’aria, quella fenice d’oro volava nell’eternità.

Nel 1945 Mizugochi vive presso il Tempio. Il pericolo che un bombardamento potesse distruggerlo accomunava la fisicità architettonica del Tempio al destino dell’uomo. Solo in questa presa di coscienza il Tempio si poteva definire vivo, diveniva parte della caducità del mondo: l’unico modo in cui il protagonista poteva sentirsi legato alla bellezza era nella transitorietà dell’esistenza.

Ma Kyoto non verrà bombardata e il Kinkaku-ji rimarrà lì come se affermasse con forza: ‘qui sto sin dai tempi antichi e qui rimarrò in eterno’. Il Tempio si era assopito. Per il solo fatto d’esistere nella sua materiale presenza, costituiva un ordine, una regola, ma nella vita mutevole degli uomini non poteva esistere questo tipo di eternità.

Eppure quella bellezza tranquillizzava Mizoguchi, lo isolava dalla vita umana e dalla vita vissuta, che lo aveva puntualmente tradito, una vita fatta di relazioni che mostravano soltanto le maschere degli uomini con cui aveva avuto un qualche tipo di rapporto, lo proteggeva come una prigione fisica e mentale: come poteva andare verso la vita se era prigioniero? Quindi da una parte la bellezza richiedeva una rinuncia, dall’altra lo lasciava sfiorare la sua eternità. Questa visione della vita è la visione stessa dello scrittore, quando prima di suicidarsi tramite il seppuku (suicido onorevole o cerimoniale) dirà durante il suo ultimo discorso pubblico: ‘la vita umana è breve ma io vorrei vivere per sempre’.

La riflessione successiva era scontata: era Mizoguchi a possedere il Tempio o ne era posseduto? oppure stava per stabilirsi uno strano equilibrio, una situazione per cui diveniva possibile che lui fosse il Tempio e il Tempio fosse lui? In ogni caso il Padiglione d’oro cristallizzava la struttura del suo mondo. Quel mondo visto da ogni angolazione esterna ed interna, in ogni condizione atmosferica, in ogni singola colonna, lamina d’oro o nella voce dei visitatori. 

Al di là del mero giudizio estetico, questo tipo d’incompiutezza non può essere compresa rimanendo ancorati al punto di vista occidentale: da una parte abbiamo ‘l’estetica del vuoto’, dall’altra ‘l’horror vacui’, che ha caratterizzato secoli di storia dell’arte occidentale. In oriente c’è l’artista-vuoto, che raggiunge le più alte espressioni artistiche solo dimenticandosi del proprio , dall’altra l’artista-genio, che nella sua arte celebra il , le sue abilità tecniche, le sue idee, la sua visione. Due forme d’arte diverse, che rispecchiano due culture millenarie diverse.

Mizoguchi penserà al Tempio Chion incendiato nel 1431, Nansen nel 1339, Enryaku-ji nel 1571… i templi prima o poi andavano tutti fatalmente distrutti. Questo faceva parte della pericolosa illusione del tsukumogami(spirito degli oggetti), una credenza giapponese dove anche gli oggetti hanno una vita, posseggono uno spirito che si forma al compimento dei cento anni della creazione dell’oggetto, così dopo cento anni vengono distrutti dai proprietari per non essere perseguitati da quegli spiriti (sia buoni che vendicativi), e il Kinkaku-ji non faceva eccezione.

‘La mia azione svelerà agli uomini la pericolosa illusione del tsukumogami e li salverà. Con il mio gesto sospingerò il mondo del Padiglione in un mondo diverso, dove esso non esiste. Il senso del mondo cambierà senza dubbio’

Mishima attraverso le osservazioni di Mizoguchi contrappone la conoscenza all’azione, non a caso inizialmente avevo fatto riferimento al regista Kenji Mizoguchi, nel film del 1941 Genroku chushingura (la vendetta dei 47 ronin), dove la rivoluzione interna provoca l’abolizione del casato Kira e da questo deriva un rinnovamento morale. Un rinnovamento in cui i migliori cittadini si trovano nell’obbligo di suicidarsi. Mishima e Kenji fanno probabilmente riferimento al sacrificio dei Kamikaze durante la Seconda Guerra Mondiale, un sacrificio inutile se l’Imperatore Giapponese con la resa ha rinunciato alla sua discendenza divina, rinnegando un’identità nazionaletipica del patriottismo.

Però nel romanzo Mizoguchi rinuncia al suicidio, dirà ‘voglio vivere’, ma il seme dell’idea del seppuku è ormai gettato, da lì a pochi anni, nel 1970 Yukio Mishima dopo aver inviato il suo ultimo romanzo all’editore proclamerà che il suo compito di scrittore è finito, così all’età di 45 anni eseguirà il seppuku rituale.

Il mondo di Mishima, come quello di Mizuguchi, è in continua evoluzione, in continuo cambiamento e ciò provoca dolore nell’uomo: ecco che la materia mostra la sua vacuità, e l’illuminato è colui che contempla questa vacuità nel mondo. La contemplazione del vuoto è centrale, nel romanzo la contemplazione del Kinkaku-ji, la bellezza effimera: è l’unico modo in cui si supera la paura dell’impermanenza, la paura del cambiamento e anche del supremo cambiamento: la morte.

You may also like