La statua di neve

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di Marco Pochesci

«Attraversò il gigantesco cantiere con passo frettoloso, fermandosi solo per pochi istanti, quasi sovrappensiero, a osservare la mole della basilica completamente ingabbiata dalle impalcature, avvolta in una sorta di alone fosco: il polverio sollevato dalle migliaia di operai che si aggiravano sui tavolati, dalla calce e dal gesso che fluttuavano nell’aria densa e fredda di quel giorno di gennaio».

Inizia così il racconto scritto da Valerio Massimo Manfredi, inserito nel romanzo “I cento cavalieri”, una raccolta di dodici esempi di narrativa breve ambientati in vari momenti storici, con protagonisti alcuni dei personaggi di spicco di quei periodi, come, in questo caso, Michelangelo Buonarroti. 

La vasta attività e i grandi capolavori dell’artista fiorentino però finiscono quasi in secondo piano nella narrazione che invece si concentra sul rapporto che esisteva tra Michelangelo e la marchesa di Pescara Vittoria Colonna: «un amore etereo, spirituale, impalpabile». Della forte amicizia che legava l’artista alla nobile poetessa parlano già i contemporanei suoi biografi Ascanio Condivi e Giorgio Vasari. Nella Vita di Michelangelo Buonarroti edita nel 1553, il Condivi scrive:

«Amò grandemente la Marchesana di Pescara, del cui divino spirito era inamorato, essendo all’incontro da lei amato svisceratamente; della quale ancor tiene molte lettere, d’onesto e dolcissimo amore ripiene, e quali di tal petto uscir solevano, avendo egli altresì scritto a lei più e più sonetti, pieni d’ingegno e dolce desiderio».

I sonetti citati dall’allievo e biografo del Buonarroti sono confluiti nel volume Rime e lettere pubblicato postumo dal pronipote dello scultore. Il sentimento di stima era reciproco ed è testimoniato da alcune lettere che la marchesa spedisce a Michelangelo con parole di ammirazione nei confronti suoi e delle sue opere. Ma è ancora Condivi a chiarire che «ella più volte si mosse da Viterbo e d’altri luoghi […] e a Roma se ne venne, non mossa da altra cagione se non di veder Michelagnolo; e egli all’incontro tanto amor le portava». 

Ed è proprio uno di questi incontri che l’autore del romanzo tenta di ricostruire immaginando un dialogo in cui una meravigliata Vittoria riceve in regalo un disegno realizzato dal grande artista. Michelangelo, infatti, più volte consegnò alla marchesa dei regali, come riferisce il ben informato Vasari nelle Vite del 1568:

«e le disegnò Michelagnolo una Pietà in grembo alla Nostra Donna con dua angioletti, mirabilissima, et un Cristo confitto in croce, che, alzato la testa, raccomanda lo spirito al Padre, cosa divina; oltre a un Cristo con la Samaritana al pozzo».

La Pietà è oggi conservata al Isabella Stewart Gardner Museum di Boston, il Cristo crocifisso è invece al British Museum, mentre il manufatto con la Samaritana al pozzo è andato purtroppo perduto. Ma in questo, incredibilmente freddo, inverno romano alla poetessa torna alla mente un episodio avvenuto qualche anno prima, a Firenze, dove un giovane Michelangelo fu incaricato da Piero de’ Medici di eseguire una statua di neve, così come raccontano i già citati biografi. Scrive Vasari:

In questa occasione, mentre la neve cade sulla Città Eterna, Vittoria decide di posare per l’artista, essere sua modella soltanto per una statua di neve, un’opera d’arte effimera, destinata alla distruzione, che può rimanere impressa solo nella memoria di chi riesce a vederla almeno per una volta. Una scultura in marmo, invece, sarebbe rimasta «esposta per sempre a ricordarmi un momento di debolezza, forse un peccato»; afferma Vittoria nella conversazione con l’artista, che, senza pensarci due volte, corre nel cortile ad ammassare la neve e a “scolpirla” fino a creare la figura della sua musa. 

Le parole della poetessa ricordano i pensieri dello scultore francese Étienne-Maurice Falconet che nelle sue Réflexions sur la sculpture, pubblicate nel 1761, afferma:

«La scultura, così come la storia, è la più durevole depositaria delle virtù degli uomini e delle loro debolezze. […] Lo scopo più degno della scultura, considerato dal punto di vista della morale, è quello di perpetuare la memoria degli uomini illustri e di dare dei modelli di virtù tanto più efficaci».

Anche se in questo caso la statua sarebbe rimasta solo per poche ore. Nel racconto di Manfredi l’attenzione è focalizzata sul rapporto tra i due protagonisti; quindi riprendendo ancora le Réflexions, Falconet sostiene che lo scultore debba unire allo studio, necessario alla realizzazione delle opere, il sentimento.

«Esso deve essere inseparabile da tutte le sue opere. Le rende vive; se lo studio è alla base delle opere, il sentimento ne è l’anima. […] Esprimere le forme dei corpi e non congiungere il sentimento è come lasciare le opere a metà. […] Unire queste due parti (ma con quale difficoltà!) equivale a scoprire il sublime della scultura».

E forse il grande Michelangelo riuscì a raggiungere il sublime dell’arte scultorea anche in un’opera mai esistita come la statua di neve di Vittoria Colonna.

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