Il Gruppo del Laocoonte

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di Valentina Corvino (III° I Liceo Statale Sperimentale Bertrand Russell, Roma)

Il mito di Laocoonte e la sua storia, vengono narrati e consegnati alla memoria storica di tutti, grazie a Virgilio che, nell’Eneide, ne racconta la morte e grazie alla scultura che prende il nome proprio dal gran sacerdote e che è conservata, oggi, nei Musei Vaticani.

La sua storia è narrata nel secondo libro dell’Eneide (poema epico in 12 libri, scritto tra il 29 ed il 19 a.C da Virgilio nato ad Andes nel 70 a.C. e morto a Brindisi nel 19.a.C.) in cui si raccontano le gesta del principe troiano Enea, riuscito a fuggire dalla città in fiamme, portando con sé il figlio Ascanio ed il padre Anchise. Dopo lungo pellegrinare, giunto sulle coste del Lazio, avrebbe, secondo il mito, fondato Roma. Nel secondo libro, in cui viene raccontata la caduta di Troia, incontriamo la figura di Laocoonte.

Sacerdote del tempio di Apollo e  veggente troiano, durante la guerra contro i Greci, è divenuto sacerdote di Poseidone (Nettuno) ed insieme alla sacerdotessa Cassandra, figlia di Priamo, è il solo ad opporsi all’ingresso in città del cavallo che i Greci hanno lasciato sulla spiaggia.

Laocoonte, alla vista del cavallo, gli corre incontro scagliando una lancia che ne fa risuonare la pancia piena e gridando l’ormai celebre frase «timeo Danaos et dona ferentis» (Temo i Greci, anche se portano doni).

«Allora un altro evento molto più spaventoso sopraggiunse improvviso a turbarci: infelici! Eletto sacerdote di Nettuno, Laocoonte sacrificava ai piedi dell’altare solenne del Dio un enorme toro. Ed ecco (inorridisco nel dirlo) due serpenti, venendo da Tenedo per l’alta acqua tranquilla, si levano sull’oceano con spire immense e s’avviano insieme verso la spiaggia. Senza esitare, i serpenti puntano su Laocoonte. E anzitutto, avvinghiati con molte spire viscide i suoi due figli piccoli, ne straziano le membra a morsi. Poi si gettano su Laocoonte che armato correva in loro aiuto stringendolo coi corpi enormi: già due volte in un nodo squamoso gli han circondato vita e collo: le due teste stan alte sul suo capo. Sparse le sacre bende di bava e di veleno Laocoonte si sforza di sciogliere quei nodi con le mani ed intanto leva sino alle stelle grida orrende, muggiti simili a quelli d’un toro che riesca a fuggire dall’altare, scuotendo via dal capo la scure che l’ha solo ferito.Infine i due serpenti se ne vanno strisciando sino ai templi più alti, raggiungono la rocca della crudele Minerva, rifugiandosi ai piedi della Dea sotto il cerchio del suo concavo scudo».

La tragica sorte di Laocoonte assume, dunque, per i Greci, grande importanza, al punto da essere utilizzata come insegnamento: mai opporsi alla volontà degli dèi. È  in questa ottica che viene scolpito il Laocoonte,  gruppo marmoreo di epoca ellenistica della scuola di Rodi, da cui proviene anche la famosa Nike di Samotracia. È una copia in marmo, risalente all’età di Tiberio (probabilmente del 150 a.C. ca.), da un originale in bronzo del II secolo a.C., andato perduto, destinato ad abbellire l’Altare di Zeus a Pergamo. Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, racconta di aver visto la statua presso la dimora dell’Imperatore Tito e parla persino degli autori di questa famosissima scultura: Agesandro, Polidoro e Atanodoro

«Né poi è di molto la fama della maggior parte, opponendosi alla libertà di certuni fra le opere notevoli la quantità degli artisti, perché non uno riceve la gloria né diversi possono ugualmente essere citati, come nel Laoconte, che è nel palazzo dell’imperatore Tito, opera che è da anteporre a tutte le cose dell’arte sia per la pittura sia per la scultura. Da un solo blocco per decisione di comune accordo i sommi artisti Agesandro, Polidoro e Atanodoro di Rodi fecero lui e i figli e i mirabili intrecci dei serpenti»

(Plinio il VecchioNaturalis Historia, XXXVI, 37)

Queste indicazioni sarebbero state avvalorate dal fatto che la dimora dell’Imperatore Tito era sita a Colle Oppio ed è proprio in questi luoghi che, il 14 gennaio 1506, viene scoperta e riportata alla luce questa scultura.

La scoperta fece accorrere sul colle moltissimi curiosi e scatenò una vera e propria corsa all’acquisto; fu tuttavia Papa Giulio II che, dopo aver inviato sul luogo del ritrovamento l’architetto pontificio Giuliano da Sangallo e Michelangelo Buonarroti (cui commissionerà nel 1508 la Cappella Sistina), i quali gli confermarono che si trattava della famosa scultura citata da Plinio, comprò per 600 ducati la vigna divenendone così  l’unico proprietario.

Michelangelo stesso racconta così il ritrovamento:

«Qualcuno mi venne subito a chiamare per avvertirmi cosa stava accadendo a pochi passi dal Colosseo e mi precipitai nella vigna per osservare da vicino quel capolavoro che stavano facendo riemergere dalla terra.

Come potevo non rimanere estasiato da una simile perfezione anatomica e da un pathos così coinvolgente? Le facce dei tre protagonisti erano un racconto continuo. Rimanere indifferenti era impossibile!

Mentre venivano riportate alla luce le forme di quel complesso, quasi mi sentii mancare. Possibile che la scultura avesse già raggiunto quella perfezione di forme in un tempo così remoto?

Sembra di sì.

Il vostro Michelangelo Buonarroti vi saluta e se ne va a giro per Firenze ancora vestita a festa»

Il pontefice Giulio II collocò la statua nel Giardino del Belvedere, in un cortile ottagonale progettato da Bramante: questo gesto è considerato da molti l’azione con cui vennero fondati i Musei Vaticani.

Un’altra copia di questa scultura si trova all’interno della Galleria degli Uffizi di Firenze: fu scolpita da Baccio Bandinelli nel 1520, su incarico del Cardinale Bernardo de’ Medici, per conto di Papa Leone X, con lo scopo di inviarla in dono a Francesco I di Francia.

Il gruppo marmoreo, al momento del ritrovamento, era perfettamente conservato, ma, nonostante questo, mancavano le braccia destre di tutte e tre le figure.

Nel 1798, in seguito al Trattato di Tolentino, Napoleone portò la statua a Parigi che venne esposta al Louvre.

Nel 1815, con la Restaurazione, fu riportata in Vaticano, dove Canova seguì le operazioni di restauro e dove è esposta tutt’ora.

Tra il 1957 e il 1959, durante l’ultimo restauro, sotto la direzione di Filippo Magi, vennero rimosse le ultime integrazioni e venne rimesso il cosiddetto braccio di Pollak, (Ludwig Pollak, archeologo di Praga) al quale dobbiamo il casuale ritrovamento (avvenuto nel 1906,  nella bottega di uno scalpellino romano)  del presunto braccio originale, che era in posizione piegata esattamente come lo stesso Michelangelo lo aveva immaginato.

Il gruppo marmoreo è stato scolpito a tutto tondo, cioè a 360 gradi, e, da qualsiasi lato lo si guardi non perde l’effetto drammatico, ma è nella parte frontale che la storia prende vita e chi osserva viene coinvolto nella vera tragedia che si sta compiendo.

La scultura ha in sé una grande potenza drammatica e di movimento che fa quasi dimenticare che sia fatta di marmo, un marmo la cui superficie, così bianca e perfetta, riflettendo la luce, crea luci ed ombre che esaltano ancora di più il movimento dei corpi avvolti fra le spire dei serpenti ed ogni singolo muscolo sembra prendere vita, facendoci quasi sentire la tensione di quell’istante.

Laocoonte, viene raffigurato su un altare, intento a contorcersi mentre il corpo viene avvolto dalle spire con i muscoli in tensione e gonfi «già due volte in un nodo squamoso gli han circondato vita e collo», e mentre tenta disperatamente di liberarsi, torcendosi verso destra, uno dei serpenti lo morde al fianco sinistro.

La testa, piegata all’indietro, è piena di riccioli ed insieme alla folta barba, contribuisce a dare volume e movimento con i chiaro scuri che la luce crea sulle ciocche scolpite nel marmo.

Il volto è sofferente e contratto, e guarda al cielo con la bocca socchiusa «intanto leva sino alle stelle grida orrende, muggiti simili a quelli d’un toro che riesca a fuggire dall’altare, scuotendo via dal capo la scure che l’ha solo ferito».

I figli Antifate e Timbreo sono oramai sfiniti «avvinghiati con molte spire viscide i suoi due figli piccoli, ne straziano le membra a morsi» uno dei due, quello di destra, è ormai privo di vita ed il suo corpo giace abbandonato all’indietro fra le spire del serpente, mentre l’altro ha il volto rivolto verso il padre in cerca di aiuto e tenta di liberarsi la gamba sinistra. Tutto avviene sotto gli occhi impotenti, di chi vede questi tre corpi intenti a divincolarsi in un equilibrio precario e con i muscoli del corpo in completa tensione.

La raffigurazione del corpo di Laocoonte, è perfetta, troppo perfetta per rappresentare in modo reale il corpo di un vecchio sacerdote umano e non divino, ma i canoni classici ed Ellenistici della scultura tendono ad idealizzare le figure in cerca della maggiore drammaticità dell’istante in cui avviene questa aggressione ed è proprio questo lo spirito dell’Ellenismo con cui gli scultori Greci creavano le loro opere: ispirare commozione attraverso gesti plateali e nello stesso tempo rammentare che l’essere umano non può opporsi al volere divino, per questo Laocoonte è raffigurato mentre lotta su un altare rivolgendo lo sguardo al cielo.

La storia e soprattutto la scultura del Laocoonte, sono stati fonte di grande ispirazione non solo per gli artisti del Rinascimento, ma anche per la letteratura dell’epoca: ne hanno parlato Pietro Aretino nella Vita di Santa Caterina Vergine e anche Jacopo Sadoleto con un carme dal titolo, Sulla statua di Laocoonte, scritto interamente in latino.

Concludiamo con il sonetto Poi che ‘l Fattor delle lucenti stelle di Benvenuto Cellini (1500-1571) con cui lo scultore poeta intende ammonire tutti coloro i quali non seguono i consigli degli uomini saggi, esattamente come era accaduto per il popolo di Troia che non aveva voluto ascoltare il suo sacerdote.

Poi che ‘l Fattor delle lucenti stelle
dispose veder ir le fiamme al cielo
della città, ch’il bel signor di Delo
e Nettunno formâr fra le più belle,

delle genti troiane ingrate e felle
agli occhi pose un nubiloso velo,
quando ferì di Laocoonte il telo
del palladio caval la finta pelle;

la fede tolse di Cassandra al grido,
e spinse con tranquillo fiato il legno
dell’adultero Pari al greco lido.

Guai a quella città, guai a quel regno
che prende e dice: –Io sol di me mi fido,
dell’uom prudente il buon consiglio a sdegno
-.

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